DIRITTO E GIUSTIZIA TRA NORMA E REALE |
CORSO DI PROCEDURA PENALEPROF. LUIGI KALBUNIVERSITA' DI SALERNO10 maggio 2012di Frate Antonio Belpiede, OFM CapProf. de Droit Canonique, Etude St. Laurent, Bouar - Rep. Centrafricaine
Il testo che segue è provvisorio. Non se ne permette diffusione e moltiplicazione, salvo che al prof. Luigi Kalb per uso interno all'università di Salerno.
INTRODUZIONE
Ho parzialmente mutuato il titolo di questa relazione da un'opera di Isabelle Pariente - Butterlin, maitre de conference in filosofia all'Università di Provenza, Le Droit, la norme et le réel.[1] La riflessione, tuttavia, sulla relazione tra norma e storia, legge e vita quotidiana, la sto sussumendo da tempo da un grande maestro francese, Michel Villey. Villey (1914 – 1988), professore nella Facoltà giuridica dell’Università di Paris II – Pantheon Assas dal 1961 al 1982, si è battuto dagli anni ’50 contro il positivismo legista e statolatrico, a favore d’un ritorno al Diritto naturale classico, secondo l’impostazione di Aristotele, che trovò la sua più piena attuazione nel Diritto della Roma classica (fine II secolo a. C. – inizio III sec. D. C.). A voler essere rigorosi, di discepolo in maestro si risale molto addietro nel tempo. Villey, infatti, si ritiene discepolo di Tommaso D'Aquino e dei giuristi romani. Questi a loro volta, volendo "jus in artem redigere" al tempo di Marco Tullio Cicerone[2], mutuarono categorie logiche dalla cultura greca. Il dikaion politikon di cui parlava Aristotele, divenne - la traduzione è letterale - jus civile in Roma, il diritto civile. Da diritto della città, concreta e veloce attribuzione del "suum" a ciascuno, il sistema si è involuto verso una riduzione positivista alla Legge che emana dallo Stato, il mitizzato legislatore. Di "mitologie giuridiche della modernità" parla con determinazione Paolo Grossi, professore di storia del Diritto a Firenze, Accademico dei Lincei, Giudice della Corte Costituzionale, svelando - per dirla col Foscolo - "di che lacrime grondi e di che sangue" il sistema in apparenza coerente uscito dalla Rivoluzione francese e fluito nella codicistica, dal Code Napoleon in poi. La sua riflessione sottolinea il contrasto tra il diritto medievale, profondamente intessuto nella società civile, composta di persone in relazioni molteplici e in fervida associazione, e quello "mitologico" della modernità, impoverita dall'individualismo idealista. In questo il legislatore è mitizzato e posto come unica fonte del Diritto; la legge diviene il risultato di un rigoroso procedimento formale che dona potere alla volontà di chi la promulga, indipendentemente dal suo valore o disvalore.[3] L'occhio dello storico è necessario a chi produce leggi positive, come a chi è chiamato ad applicarle, interpretandole. Il confronto con la memoria, con gli errori e le soluzioni del passato è un passo necessario per la demitizzazione, per l'abbattimento degli idoli che nascondono sotto un velo formale, inefficacie, iniquità, fariseismi. Michel Villey risale ancora più indietro nel tempo. Il Jus è nato nella Roma Classica, quando venne redatto e composto in arte, sul parametro delle scienze organizzate nell'antica Grecia, sotto l'influsso della filosofia di Aristotele. Il processo di formazione del Pensiero giuridico moderno ha portato al positivismo legista: l'autorità dello Stato garantisce i diritti di ogni individuo - soggetto. I diritti, jura, che in Roma erano cose concrete, sono diventati pretese astratte garantite - teoricamente - dalla legge. La raffinatezza formale dei sistemi codicistici è generalmente falsa e ipocrita. La justitia, di cui il jus dovrebbe essere il figlio fedele che la intronizza, è sempre più lontana dall'esperienza del cittadino d'Occidente. Le vaste ricerche di Grossi e Villey vertono più sul jus civile, il diritto tipico dell'esperienza quotidiana nella civitas. La tentazione, per lo studente di un Corso di Procedura Penale, potrebbe essere il disinteresse. L'occhio dello storico, tuttavia, e del filosofo del Diritto (Villey rivestì questa duplice identità) è necessario e utile ad ogni ambito giuridico. La demitizzazione del Leviatan - Stato[4] e la contestazione della legge come unica fonte del Diritto aiuta a cambiare il punto di partenza. E' dalla societas che parte il Jus, non dal Parlamento, o - per non dimenticare la sofferta concretezza storica italiana - dai decreti legge d'urgenza del governo di turno. Il rispetto della polis - civitas, la considerazione dei cittadini e delle loro relazioni possono dettare anche politiche penali differenti. Le leggi penali e i riti processuali non sono delle soluzioni ipostatizzate nel tempo, assolute, garantite da uno Stato senza difetti, ma relative alla storia. Il passaggio dal processo inquisitorio all'attuale accusatorio ne è segno evidente. In esso, basta riflettere su un particolare, la figura e il ruolo nel procedimento penale e nel processo del pubblico ministero, valutare gli enormi cambiamenti dallo Stato Fascista alla Repubblica per rendersi conto di questa relatività (ma qui entro in punta di piedi sul terreno del prof. Kalb ...). Mi fermerò, pertanto, a considerare alcuni temi di Villey e di Grossi col solo scopo di innescare in voi qualche sano dubbio, qualche moto di ricerca. Voi non state per laurearvi, come afferma un vezzo semantico non condivisibile, "in Legge", ma in Giurisprudenza. Cioè molto più che conoscere dei testi legislativi o applicarli come fossero il teorema di Pitagora.
PAROLE DA SVELARE
Nella metodologia della filosofia e teologia scolastica c'era la explicatio terminorum. Non è oggi pleonastico spiegare alcuni termini chiave. Parole che sembrano diverse tra loro hanno in realtà la stessa radice, si rivelano come "parenti camuffati" dall'evoluzione semantica, manifestano origine comune, affinità profonda, destino da condividere. Diritto e Giustizia suonano come termini diversi, non solo in italiano ma anche in francese, Droit et Justice, spagnolo, Derecho e Justicia, Inglese, Right and Justice. Ma in principio non fu così: JUS e JUSTITIA manifestano nella lingua latina tutta la loro intima relazione. Nella nostra lingua "nonna", il greco classico, si ha la stessa rivelazione: Dikaion e Dikaiosune svelano la stessa radice. Da Jus Juris deriva una serie di vocaboli fondamentali per la nostra scienza:
Giustizia, giuridico, giurista, giurisdizione, giurisdizionale, giureconsulto, jury, giuridismo, giuridicamente, giudicare, giudice, giudiziario, giurisprudenza, giurisprudenziale ... giusto ...
Diritto e giustizia, pertanto, i due primi vocaboli nel titolo di questa conversazione, sono termini e realtà strettamente unite. Nelle prime righe del Digesto si afferma: "Est autem a Justitia appellatum Jus".[5]La giustizia di cui si parla non è la virtù morale. La dikaiosune in greco è la somma delle virtù di una persona, ciò che fa di un uomo un "uomo giusto" (o di una donna, evidentemente). Occorre distinguere tra questa Giustizia, che chiameremo "generale" e la Giustizia particolare. Michel Villey analizza, esaminando l'Etica a Nicomaco di Aristotele, la differenza tra la Giustizia generale e quella particolare.
ALLE FONTI DEL DIRITTO
Sulla spiaggia del mar Egeo e tra i suoi scogli Aristotele studiava il comportamento degli animali acquatici e li classificava. Non era solo un filosofo, nel senso moderno, ma anche un naturalista e un sociologo. Nella polis greca egli studiava i comportamenti sociali, la formazione delle regole etiche di condotta, la reazione sociale di fronte alla trasgressione, la sedimentazione di regole civili in norme, in leggi. Nella sua Philosophie du droit Villey inizia il capitolo I col titolo Una filosofia della Giustizia, e sottotitola con la parola greca che esprime il termine Giustizia, dikaiosune.[6] Usa il termine greco perché il primo a porsi il problema del fine dell’attività o arte giuridica, che per brevità chiamiamo Diritto, al singolare e con la maiuscola, è stato Aristotele. Se dovessimo applicare al grande greco le nostre attuali categorie epistemologiche, lo definiremmo e filosofo e scienziato e sociologo, ma occorre stare attenti a cogliere queste tre attribuzioni in maniera unitaria, non con le contrapposizioni di metodo del nostro tempo. La caratteristica fondamentale della sua filosofia è stata l’osservazione della natura, in un contesto straordinariamente simile a quello della mia Puglia e delle terre tutte dell'Antica Magna Graecia. L’osservazione dello stagirita riguarda non solo gli ulivi e il mare, la vite e il fico e le creature della terra e delle acque, ma anche i fenomeni sociali, tra essi il Diritto. Tra le opere che ci sono giunte, nella Retorica egli parla del lavoro dell’avvocato, nella Politica del Diritto naturale. Nelle Etiche egli cerca di descrivere il fine delle varie attività umane, chiamate virtù. La filosofia ha come fine la verità, la politica e l'economia l'utile, la giustizia generale o moralità l'obbedienza alle leggi morali. La Giustizia particolare ha come fine la giusta ripartizione dei beni esteriori in un gruppo. Indirizzando il suo sguardo su questi comportamenti, Aristotele ci dona una definizione del fine dell’attività giuridica. Nel libro quinto delle Etiche, Etica a Nicomaco, il filosofo tratta della Giustizia e del Diritto. In esso espone il linguaggio che ha ascoltato nella vita fremente della polis greca. Struttura così, naturalmente, l’armamentario di una scienza che non è inventata a tavolino, ma parte dall’osservazione della realtà. Dal nome della dea greca della Giustizia, Dike, viene tutta una famiglia di parole usate dai greci nella loro vita quotidiana: dikaiosune (la virtù della giustizia), dikaios (l’uomo giusto), adikein (agire contro il diritto), adikia (ingiustizia), dikastès (il giudice), to dikaion (il diritto). Questi termini, come abbiamo visto, troveranno dei precisi derivati latini in jus, corrispondente a to dikaion, e justitia, dikaiosune, con tutta la loro famiglia di parole. Cercando d’identificare l’oggetto della virtù della Giustizia, Aristotele distingue la giustizia generale da quella particolare. La prima è la summa di tutte le virtù. Quando si dice “Aristide è un uomo giusto” lo si indica come prudente, onesto, leale, temperante, misericordioso. Questa giustizia è chiaramente una virtù morale, che va oltre l’oggetto del Diritto. Se il filosofo la chiama “legale” è perché si riferisce a leggi morali, iscritte nella coscienza collettiva di una società. Villey lo dice con fermezza: “Liberiamoci del nostro modo di parlare moderno. Nel sistema di Aristotele le leggi che formano l’ossatura della giustizia generale – che siano scritte o no, naturali o positive – non sono il Diritto (to dikaion)[7]. Nella giustizia particolare il filosofo identifica una virtù sociale intesa in senso stretto: prendere la propria parte di beni esteriori all’interno del gruppo sociale e niente di più. Qui non c’è più una virtù immensa, che comprende tutte le altre, ma un’attitudine specifica, diversa rispetto ad altre: la prudenza, la temperanza, la fortezza, l’amicizia, la misericordia etc. L’oggetto della giustizia particolare è che “ciascuno abbia il suo”, che in greco suona “ta autòn ekein” e in latino “unicuique suum”, espressione celebre e ancora vivente sulla testata del quotidiano della Santa Sede, L’Osservatore romano. Se la filosofia ha come fine la verità, se l’economia ha per obiettivo l’utilità, il fine del Diritto è la giusta divisione dei beni. La gran parte dei giuristi della Roma classica dirà che l’obiettivo dell’arte giuridica è suum cuique tribuere.
LA NORMA: STRUMENTO E NON FINE
E' dalla comprensione del fine che si comprende una scienza e se ne orienta il metodo. Il Diritto, come si forma dall'osservazione dei fenomeni civili nella polis greca e nella fondazione epistemologica nella Roma classica, è, come lo definisce Villey, Diritto Naturale Classico. E' naturale perché si forma dall'osservazione della natura umana nelle sue relazioni. E' Classico perché si abbevera alle fonti indicate: Aristotele e i giuristi romani, a cui si aggiunge costantemente quel crocevia tra antichità classica e modernità che è Tommaso d'Aquino. La natura di cui parla Villey è mobile, elastica, come le realtà sociali. Non ha nulla a che fare con i miti venuti dall'Illuminismo o da Hobbes. Nello "stato di natura" l'uomo non ha una libertà infinita. Lo stato naturale dell'uomo non è quello dell'individuo, figlio delle teologie capitaliste, ma quello della comunità. Gran parte delle mitologie moderne sui diritti individuali si basano sulla negazione o incomprensione del fenomeno, estremamente naturale, dell'associazione umana, dalla famiglia in su. Così occorre distinguere fermamente tra il cosiddetto "Diritto naturale moderno" e il Diritto naturale Classico propugnato da Villey. La prima scuola cerca di fissare principi assoluti, presenti ad ogni coscienza, immobili nel tempo; il secondo è mutevole, elastico, come le decisioni dei giuristi romani, come la natura stessa: "Il Diritto naturale classico è cangiante. Non è che mobile, e allo stesso tempo stabile, orientato al bene, al fine, trovando in esso il suo riposo, come tutto ciò che spinge - phuein, phusis, natura - come tutto ciò che è vivente".[8]
In questa visione naturale del Diritto, che attua la Giustizia nel caso concreto, che assicura l'equilibrio della città con una giusta distribuzione dei beni, delle responsabilità, degli onori, la norma, la legge ha il suo posto armonico. Essa serve a sedimentare l'esperienza acquisita e renderla conoscibile con maggior facilità, uno strumento che sarà tanto più utile quanto formulato sulla reale necessità sociale, come un abito sartoriale sul corpo della persona. Se, al contrario, il diritto si immedesima nella legge, forse proprio perché si immedesima nella legge diviene qualcosa di ben diverso dalla giustizia.
"L'uomo della strada, portatore del buon senso dell'uomo comune, non ha torto. Il diritto appare a lui soltanto come legge, e legge è il comando autoritario che piove dall'alto sulla inerme comunità dei cittadini, senza tener conto dei fermenti circolanti nella coscienza collettiva, indifferente alla varietà delle situazioni che pretende regolare".[9]
La complessa storia della formazione del pensiero giuridico occidentale moderno ha condotto, al contrario, esattamente a una idolatria della legge. Il mito - come lo chiama Grossi - dello Stato parlamentare, della Assemblée Nationale dei Giacobini, che pretende avere la rappresentanza della volontà popolare, ci ha condotti all'obbedienza alla legge non perché giusta, non perché intelligente, non perché ispirata dalle concrete esigenze sociali, ma perché promulgata al termine di un procedimento formalmente garantito, indipendentemente dal suo valore intrinseco. Scrive Grossi:
"Ricordo sempre con raccapriccio quanto scriveva, in un deprecabile parossismo legalistico, il mio maestro di diritto processuale civile, Piero Calamandrei, sulla necessità suprema dell'obbedienza anche a quel precetto legislativo che genera orrore nel comune cittadino. E di leggi che fanno orrore alla nostra coscienza morale il secolo ventesimo, sciaguratamente, non è sprovvisto: segnalo almeno quei provvedimenti per la tutela della razza, nel 1938, aberranti e ripugnanti nel loro perverso razzismo, che sentiamo ancora pesare come vergogna sulla civiltà giuridica italiana".[10]
All'inizio dell'esperienza umana c'è una comunità in relazione, una famiglia, un insieme di famiglie, un clan, una tribù, un'etnia. Nell'esperienza umana naturale ci sono relazioni di sangue, d'amicizia, d'amore, politiche ed economiche, relazioni giuridiche. Il pensiero giuridico moderno è stato costruito fondamentalmente sul mito dell'individuo, prodotto astratto delle filosofie razionaliste ed idealiste. A questo si è attribuito un patrimonio ideale di diritti individuali, ad alcuni dei quali egli abdica, in favore dello Stato, secondo la visione di Hobbes, o li delega col voto politico, secondo lo schema figlio della Rivoluzione francese, affidando la sua volontà al legislatore. In verità l'individuo non esiste, esiste invece la persona, essere in relazione. Il Diritto nasce come esigenza di giusta distribuzione tra i membri di una comunità, la norma, la legge può servire come utile strumento per adeguare il sistema ai fremiti delle agglomerazioni naturali tra i cittadini, per rendere facile la conoscenza dei criteri acquisiti. Una sana antropologia giuridica dissipa i veli mitici e svela la realtà naturale della società, che nasce "giuridica". Dice Grossi sinteticamente: "Insomma: prima c'era il diritto; il potere politico viene dopo. [...] Nella civiltà medievale il diritto riposa negli strati profondi e durevoli della società, ossatura secreta e riposta struttura di questa".[11] Così era nella polis di Aristotele, così nella Roma classica. In questa, in particolare, i giuristi, juris prudentes, davano responsi risolvendo la controversia concreta. L'arte del diritto era prudentia più che scienza nel senso moderno, vicina alla proteiformità della vita sociale, il contrario della rigidità legalista, eppure vicina al cuore e alla mente dei membri della comunità. Nel passaggio dalla libertà dei responsi allo jus respondendi, conferito dal primus divus, Cesare Ottaviano Augusto, si consuma la prima sottomissione della libertà dei giuristi all'autorità dello stato.
Il lungo processo di formazione del pensiero giuridico moderno ci ha condotti al positivismo giuridico, cioè l'idolatria della legge, considerata come fine assoluto, unica fonte, degna di obbedienza in forza della sua autorità formale, e al parallelo statalismo. La storia della monarchia francese dal duecento al settecento mostra in maniera chiarissima "la sempre più intensa presa di coscienza, da parte del Principe [...] del progetto statuale [...] di proporsi come legislatore. Anzi, di cogliere nella produzione di norme autoritarie l'emblema e il nerbo della regalità e della sovranità".[12] La Rivoluzione dell' '89, iconoclasta per molteplici aspetti dell'assolutismo regio, ne accoglierà al contrario, senza battere ciglio, questa malsana eredità, "intensificandola e irrigidendola rispetto alle sussistenti aperture dell'antico regime, sotto l'ammantamento di simulacri democratici".[13] Questa identificazione del Diritto col potere politico, il cui strumento principe è la legge, lo allontana dalla naturalezza sociale del fenomeno giuridico, dalle veloci mutazioni e, contemporaneamente, svilisce il ruolo del giurista, ridotto a mero esecutore del dettato di legge. Si perde la "dimensione sapienziale" del diritto a favore della visione imperativistica della norma.[14]
LA REALTA' LA NORMA IL GIURISTA
Il positivismo giuridico, tuttavia, di pari passo che la mitologia dello Stato legislatore che sempre cerca il bene comune, è in crisi. La società liquida (Z. Baumann), l'attuale crisi economica, la crescente potenza delle economie asiatiche, così diverse dall'etica capitalista occidentale sono tutti fattori che spingono al cambiamento. In questo contesto di decadenza del positivismo giuridico mi pare trovi spazio un recupero in chiave nuova della Giurisprudenza. Lo dice Grossi, quando parla del ruolo creativo e di custodia dell’ordinamento che svolge la Corte Costituzionale. Questa “con la propria incisiva giurisprudenza, non si è data solo carico delle resistenze e degli abusi del nostro Parlamento avverso i dettami della Costituzione, ma si è assunta, specie negli ultimi anni, un ruolo mediatore tra pluralismo dei valori d’una società e sordità dei testi legislativi”.[15] La sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 1994 (Cass. Civ. Sez. Un. 2 agosto 1994, n. 7194) sottolinea ancora l’importanza dell’operazione interpretativa per trasformare il diritto positum nel testo scritto in diritto vivente nella vita della società[16]. Proporre un cammino di ritorno ad una Prudentia Juris, tuttavia, significa aggiungere all’amministrazione concreta del diritto, lavoro tipico del giudice, una riflessione sui bisogni della società che emergono gradualmente. La lex torna alla sua naturalità se esprime con saggezza i bisogni fluidi della società tendendo alla giusta distribuzione dei beni, spogliata del suo potere mitologico che faceva dire, ironicamente al geniale Montaigne:
"Le leggi si mantengono in credito non perché sono giuste, ma perché sono leggi. E' il fondamento mistico della loro autorità; non hanno altro fondamento, ed è bastante. Spesso sono fatte da sciocchi ... chi obbedisce loro per il motivo che sono giuste, non dà loro l'obbedienza dovuta".[17]
Tommaso d'Aquino diffuse l'espressione agostiniana "lex iniusta non est lex". Le legge deve tornare ad essere espressione del reale, e dunque ad essere "ragionevole". Il suo contenuto, cioè, deve corrispondere "a un modello che né il Principe né il popolo né il ceto dei giuristi creano ma sono chiamati semplicemente a scoprire nella ontologia del creato. Qui la lex, che ha una dimensione conoscitiva sicuramente prevalente su quella volitiva, non può essere soltanto forma e comando; è innanzi tutto un certo contenuto sostanziale, perché è innanzi tutto lettura del reale".[18]Scrive Villey: "Un testo ben noto del Digesto (50.17.1) dice che è dal diritto esistente che si trae la regola giuridica: Ex jure quod est regula fiat. Prima che lo si esprima nelle leggi il diritto è, nel seno della società".[19] Due osservazioni a questo riguardo. La prevalenza logica ed etica del contenuto della legge sul potere derivante dalla sua investitura formale costituisce da tempo il centro dell'azione della Corte Costituzionale, che sta operando: "precisi e incisivi richiami alla ragionevolezza come limite dell'azione legislativa e al diritto vivente. [...] Lo storico vi vede le tracce della faticosa ricerca di ancoraggi (magari grezzi e imperfetti) alla conquista di quel traguardo di civiltà giuridica che è, deposto lo schema inappagante del mito, la legge giusta, la giustizia delle leggi".[20] L'altro strumento per tornare a rendere più morbido, ragionevole, umano e "simpatico" il sistema è il recupero della dimensione interpretativa del Diritto. La normazione non termina con la promulgazione della legge, ma deve comprendere l'interpretazione come necessario momento del suo perfezionamento e adattamento al reale, come "momento essenziale della positività della norma stessa".[21] Il Diritto insomma può essere se stesso se e nel momento della formulazione legislativa e in quello della interpretazione non perde di vista il reale, l'esigenza insopprimibile nella società umana che vi sia una giusta distribuzione delle cose.
Questa connessione tra realtà e momento legislativo così è stata studiata da un grande maestro spagnolo, Javier Hervada. Egli ha colto le relazioni tra Diritto Positivo e Diritto naturale in una unità del sistema giuridico, che è in parte naturale e in parte positivo. Questo principio di unità ha tre specificazioni: ”1. La legge positiva si genera dal diritto naturale come determinazione riguardante i mezzi convenienti ed utili per il raggiungimento dei fini naturali dell’uomo; 2. Il potere di emanare norme positive è di origine naturale, dal diritto naturale infatti derivano sia il potere sociale che la capacità d’impegnarsi e stipulare patti; 3. Le relazioni giuridiche basilari e fondamentali, di cui le altre sono derivazioni, complementi o modalità storiche, sono naturali”.[22] Da questa unità deriva una relazione armonica tra diritto naturale e diritto positivo che Hervada chiama “positivazione e formalizzazione del diritto naturale”. Siamo lontani sia dal positivismo legista e statalista come da un giusnaturalismo metafisico perduto nella sfera etica.
CONCLUSIONE: L’ORGOGLIO DEI PADRI NEI FIGLI
Quando ero una matricola nella facoltà di Giurisprudenza dell'Ateneo di Bari (ricordo ancora il numero 046340 P) non mi fu dato di cogliere la differenza tra “studiare Legge” e “studiare Giurisprudenza”. Ciò è avvenuto molti anni dopo, studiando il Diritto Canonico, viaggiando, insegnando il Diritto in Africa. Oggi che la connessione elettronica, con i suoi indubbi benefici, sta terminando il processo di riduzione della bellezza umana, della manualità dell'artigiano, della sapienza del vecchio che la meccanizzazione aveva iniziato, siete chiamati a ritornare ad essere dei sapienti del Diritto, gente che opera con saggezza antica rinnovata perché la giustizia possa regnare nelle nostre città, e con essa l'armonia, la bellezza, la pace. Non siete chiamati ad essere servi docili di un fantomatico Legislatore che ha perduto molta della sua dignità passata. Come giuristi italiani dovremmo fare continuo ricorso alla memoria dei nostri grandi padri, i giuristi romani. L’intero mondo occidentale, sia i paesi di civil law che di common law, si regge ancora sulle grandi intuizioni di Roma. Negli ultimi anni la geografia è stata, a quanto pare, eliminata dai programmi di studio delle Scuole superiori. Mi viene in mente mestamente la figura di un presidente degli Stati Uniti che, durante la campagna elettorale non sapeva dove si trovasse l’Iraq, ma poco dopo scatenò proprio lì una guerra: “ignorantia geographiae non excusat”. Già Michel Villey, negli anni ’50, reintroducendo con determinazione la Filosofia del Diritto nel panorama positivistico dei giuristi francesi, rimpiangeva l’eliminazione dei corsi di Diritto Romano dal piano di studi. Vent’anni fa, presentando la traduzione italiana della sua opera di introduzione al Diritto naturale, il prof. Hervada, parlando di sé autore in terza persona affermava:
“L’autore sa bene che l’Italia è stata la culla della scienza del diritto, nata dal talento dei giuristi romani. Così pure nell’italiana Bologna la scienza giuridica europea – nei due rami di legisti e canonisti giuridici - ebbe la sua rinascita con Irnerio e Graziano […] Si richiede un certo ardimento per comparire in tale contesto, con un libro i cui limiti sono ben noti all’autore […] Tuttavia […] sua intenzione altro non è che far risuonare di nuovo la voce dei giuristi romani, quando definirono il compito del giurista come la iusti ac iniusti scientia e la giustizia come la costante e perpetua volontà jus suum cuique tribuendi, di dare a ciascuno il suo diritto, cioè la cosa dovuta in giustizia”.[23] Crediamo che questa Italia in cui le leggi sono state fatte per troppo tempo più da incolti tribuni in cravatta verde che da esperti giuristi abbia bisogno di questo. Crediamo che questo mondo veloce, questo mondo globalizzato, abbia bisogno di tornare ad un’autentica sapientia juris. C’è qualcosa di simile tra gli arditi esperimenti genetici e gli OGM da un lato, e il positivismo legista dall’altro: un’arroganza decadente. Il sole nasce da est e va verso ovest; ci vogliono nove mesi perché un bambino nasca; i fiumi vanno da monte a valle. In una parola, esiste un ordine nel cosmo, ma anche nelle relazioni giuridiche tra gli uomini. Il primo va accettato, conosciuto, usato per il bene comune, non violentato. Il secondo va cercato “nella natura dei fatti”, nella fisiologia dei rapporti nella città degli uomini, con l’obiettivo di dare a ciascuno il suo. Tutto ciò non si può fare semplicemente applicando passivamente dei testi scritti. Il giurista positivo non può ignorare la storia e non può evitare la filosofia. Il vecchio brocardo dice: "Non de legibus, sed secundum leges iudicandum". Oggi una vera e pacifica rivoluzione democratica direbbe: "Non solum secundum leges, sed de legibus etiam iudicandum". La conoscenza storica serve a evitare gli errori del passato, a demitizzare, come fa Grossi, istituzioni e leggi che non sono discese dal cielo; la filosofia serve a dare al giurista la sua indipendenza di pensiero, custodisce la sua libertà interiore, lo forma come juris prudens. Per questo il professor Villey, un uomo scomodo per molti colleghi, dopo esser stato un valente storico del Diritto Romano nella prima stagione del suo impegno accademico scrisse Les carnets, I taccuini, Riflessioni sulla filosofia e il diritto. Per trent'anni, dal 1958 alla sua morte, 1988, portò nella tasca della giacca dei piccoli taccuini su cui annotava riflessioni che gli venivano dalla quotidianità concreta, dall'aula, dalla famiglia, dagli incontri, dalle passeggiate tra la rue Sufflot e la rue d'Assas, tra il Pantheon e il Boulevard du Montparnasse. Voglio leggervi una di queste mille riflessioni:
"Et toute connaissance est partielle y compris la philosophie (et le droit); mais la philosophie (et le droit) sont une coupe horizontale, réunissant les seuls sommets de ces cônes de ces secteurs qui verticalement découpent les autres sciences particulières. Et il devrait appartenir surtout à la philosophie de ne pas se prendre au sérieux, comme font ces systèmes pédants de la philosophie moderne; car elle n'est pas grande-chose, cette philosophie, seulement une petite servante de la nature".[24]
Esiste nella lingua inglese un lemma molto diffuso: the right thing, la cosa giusta. I giuristi romani l’avevano capito oltre ventidue secoli fa. La ipsa res iusta del giurista italiano oggi è recuperare l’orgoglio dei padri, la loro saggezza giuridica e coniugarla in questa modernità liquida. Questo, credo, è un vostro diritto, cari studenti, ma anche vostro dovere. Auguri a voi, di cuore.
BIBLIOGRAFIA RAGIONATA
Le opere di Michel Villey sono tutte in lingua francese. Esiste una traduzione italiana della sua opera maggiore, La formazione del pensiero giuridico moderno, della Jaca book, introvabile, salvo in qualche biblioteca ben fornita. Nella vasta produzione del professore scegliamo solo quelle opere che, a nostro avviso, possono maggiormente interessare uno studente attento all’inizio dei corsi di Giurisprudenza. Le citazioni dai libri di Villey e da altre opere francesi sono state da noi tradotte.
Bauzon, S., Il mestiere del giurista, Il diritto politico nella prospettiva di Michel Villey, Milano, Giuffrè, 2001. Grossi P., Mitologie giuridiche della modernità, Milano, Giuffrè, 2007 (3a ed. accresciuta). Grossi, P., Prima lezione di diritto, Laterza, Roma – Bari, 201015. Hervada, J., Introduzione critica al diritto naturale, Giuffré, Milano, 1990; un libro che orienta alla scoperta del diritto naturale classico della grande tradizione romana; Niort, F., - Vannier, G. (Edd), Michel Villey et le droit naturel en question, L’Harmattan, Paris, 1994 ; Miscellanea in memoria di Villey di giuristi francesi, saggi di grande interesse. Villey, M., La formation de la pensée juridique moderne, Puf, Paris, 2003; un’opera ponderosa, di grande fascino, che attraversa i percorsi intellettuali dei giuristi in occidente dai teologi cristiani fino a Thomas Hobbes;
[1] I. Pariente - Butterlin, Le Droit, la norme et le réel, Paris, PUF, 2005. [2] Le opere in cui Cicerone s'industria di redigere il Jus in ars o scientia sono il De Oratore e il Brutus. [3] P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, Giuffrè, 2007 (3a ed. accresciuta). [4] Leviatan, come è noto, è il titolo dell'opera celeberrima di Thomas Hobbes, che fonda la teoria del contratto sociale: cessione degli individui di parte della loro originaria libertà totale allo Stato in cambio di sicurezza e ordine ad evitare il bellum omnium contra omnes. Una fiosofia che ha dato enorme spinta allo statalismo moderno. [5] D.I.I.1 pr. [6] M. Villey, Philosophie du droit, Définitions et fins du droit, Les moyens du droit, Dalloz, Paris, 2001. Felicemente l'editore Dalloz sta ristampando introvabili opere del grande filosofo del diritto francese. Questa edizione ripresenta due tomi apparsi rispettivamente nel 1986 (quarta edizione) e nel 1984 (seconda edizione). [7] M. Villey, Philosophie cit., p. 48. [8] F. Vallancon, In memoriam, in J. F. Niort - J. Vannier (edd.), Michel Villey et le droit naturel an question, Paris, L'Harmattan, 1994, p. 15. Nostra traduzione. [9] P. Grossi, Mitologie, cit. p. 15. [10] Ibidem, p. 16. Ivi cita P. Calamandrei, La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina (1942), ora in Opere giuridiche, vol. I, Napoli, Morano, 1985. [11] Ibidem, pp. 21 - 22. [12] Ibidem, p. 30. [13] Ibidem, p. 33. [14] Ibidem, p. 5. [15] P. Grossi, Prima lezione di diritto, Roma – Bari, Laterza, 201015 ,p. 91. [16] Ibidem, p.111. [17] M. de Montaigne, Essais, libro III, cap. XIII, citato in Grossi, Mitologie cit., p. 31. [18] P. Grossi, Mitologie cit., p. 26. [19] M. Villey, Critique de la pensée juridique moderne, douze autres essais, Paris, Dalloz, 2009, p. 93. [20] Ibidem, p. 77. Corsivo nostro. [21] Ibidem, p. 73. Il tema è sviluppato da I. Pariente - Butterlin, op. cit. [22] J. Hervada, Introduzione critica al diritto naturale, Milano, Giuffré, 1990, p. 179. [23] J. Hervada, cit., p. V. [24] M. Villey, Les carnets, reflexions sur la philosophie et le droit, textes preparés et indexés par Marie – Anne Frison – Roche et Christophe Jamin, Puf, Paris, 1995, VIII, 130, p. 196. "Ogni conoscenza è parziale, compresa la filosofia (e il diritto); ma la filosofia (e il diritto) sono un taglio orizzontale, che riunisce le sommità dei coni di questi settori che verticalmente tagliano le altre scienze particolari. E dovrebbe appartenere soprattutto alla filosofia di non prendersi sul serio, come fanno certi sistemi pedanti di filosofia moderna; perché non è poi gran cosa questa filosofia, soltanto una piccola serva della natura": nostra traduzione.
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