DIARI DI VIAGGIO

CARNET PARISIEN 2010

Carnet parisien 2010


Zurigo, aeroporto internazionale, 22 novembre mattina

 

Per evitare l’odiata Ryan Air, che tra l’altro atterra a Bouvais e impone uno stress notevole per arrivare a Paris, ho fatto il biglietto con Swiss Air: Bari – Zurigo – Parigi.

Paris, Aeroport Charles De Gaulle, 14.00.

Arrivo al Terminal 1. Prendo i bagagli, raggiungo lo shuttle che collega i vari terminali e i parcheggi. Scendo al Terminal 2. Non so se, dopo due anni, il mio pass “Navigo” sia ancora valido. Lo chiedo ad una signorina sorridente allo sportello delle ferrovie. “Bien sur”, mi risponde con un sorriso. Non ricordo se posso fare un abbonamento settimanale o solo mensile. Altro sorriso. Posso modulare la mia tessera come voglio. Rinnovo l’abbonamento per una settimana, ne farò un altro per la prossima, prima del ritorno. Pago 18 Euro e 35 centesimi. Per una settimana posso salire e scendere da tutti i mezzi che voglio: bus, tram, metropolitana e RER, la ferrovia veloce che scorre sotto la rete metropolitana. E’ un’offerta enorme. Vuol dire spostarsi velocemente, poter vedere più musei, poter sedersi a più bar e guardare cento piazze anziché dieci. Sulla tessera, contenuta in un robusto plexiglass trasparente, c’è la mia faccia, c’è il mio nome. Quella tessere dice che le parole “Unione Europea”, che sormontano lo stemma e il titolo della nostra Repubblica, hanno un senso. Antonio Belpiede a Paris tu sei europeo. Tu, europeo, a Paris sei parigino. Vieni per due settimane dopo due anni? Sei parigino per due settimane. Vieni per tre mesi? Lo sei per tre mesi. Vai? Vieni? Viaggi? Torni? Vous etes le bienvenu, monsieur Belpiede. Toujours!

Io amo mia madre … l’Italia. Amo la mia capitale, Roma. Ma è un amore dolente, tradito dalla sciatteria, dall’incuria, dal menefreghismo fottuto. Ricordo ancora quando feci la mia tessera ATAC, per avere nella mia capitale lo stesso senso di libertà che ora respiro a Paris. Ricordo la burocrazia, il vecchio foglio a ricalco da riempire, le scadenze, le difficoltà … ricordo la faccia gastritica dell’impiegato. Tutti incavolati, tutti annoiati di essere dietro uno sportello da cui dovrebbero servire il pubblico. La ragazza bionda mi ha attivato la mia tessera. Sono parigino. Non ho mai cessato di esserlo. Mi ringrazia. Ho perso due minuti. Paris si muove, Paris “bouge”. Paris accoglie, integra, offre servizi veloci ed efficienti. La ragazza mi ringrazia perché anch’io ho contribuito a far alzare le statistiche sul numero di visitatori a Paris. Anch’io ho contribuito a conservare il suo posto di lavoro, a far stendere un altro tronco di ferrovia veloce, altri servizi. Ho lasciato l’Italia mentre andava in onda lo spot di Trenitalia per Natale. Mettono l’internet sulla Freccia Rossa da Milano a Roma. E’ il regalo delle Ferrovie. Ma i pugliesi che vorranno tornare a casa per Natale andranno da Torino a Lecce in 12 ore, senza vagone ristorante, né carrozza bar. E chissà che il freddo non blocchi i nevi e non spinga l’ineffabile ingegner Moretti a dire agli utenti di portarsi coperte e cibo sui treni … in caso di fermata per neve. Buffoni. Buffoni senz’appello. Buffoni senza misericordia. La “Culla del Diritto” è diventata il “paese dei balocchi”, ma solo per i buffoni che vivono tra “veline” e auto blu.

Tutto questo mi passa per la testa in un istante, mentre prendo tessera e resto dalla signorina. Le mi guarda un attimo, dopo il “Merci Monsieur” … mi chiede ancora, vedendomi assente: “Monsieur?...”. La guardo e sorrido: “Merci à vous, madame. Merci pour votre politesse”. E sorride ancora.

Brunatto

Paris mi ha accolto con un clima freddo. Sa di essere bella comunque. Passare dalla giornata di sole di domenica tra Bari e Cerignola a 4 gradi è abbastanza. Ma siamo rotti agli sbalzi termici. Devo andare a Notre Dame, a buttarmi ai piedi della Vergine , ubriaco delle vertigini del gotico e di memorie medievali.
Il pellegrino non prende mezzi. Vado a piedi sul boulevard Saint Michel. Il giardino Marco Polo, il Luxembourg, rue Sufflot col Pantheon in fondo e la Sorbona. Poi arriva lui, san Michele, il grande, che sta sulla fontana con la spada in mano, che difende Paris e sembra indicare la casa della Vergine Madre, Notre Dame.

La folla è decisamente ecumenica. L’orda dei buontemponi scatta foto dappertutto. Non ci sono celebrazioni in corso alle 15.30 e nessuno è lì a cercare di arginarla. Ma la musica dolce che viene diffusa placa tutti, anche i bufali non battezzati, anche i cinesi che se ne fregano che quello è un tempio cristiano e sembrano godere disordinatamente di tutta la libertà che il loro governo di “neomandarini post marxisti” nega in patria. Pure la musica di voci angeliche da monasteri reconditi sembra mitigare la loro inciviltà, amalgama i respiri umani e li rende in qualche modo lode alla Madre della vita. La pietà in fondo all’abside si staglia davanti la grande croce lignea dorata. La vecchia statua con bambino sta lì, all’inizio del presbiterio. E ti viene di dire: “Je vous salu, Marie, pleine de grace!”. Ma subito dopo mi viene sulle labbra la preghiera più antica a lei rivolta: “Sub tuum presidium confugimus, sancta Dei Genitrix …”. La dico più volte, per affidarle me, il sacerdozio che mi è stato dato, la mia famiglia, l’Ordine, la Chiesa, il mondo intero: “Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio …”.

Nella navata centrale transenne dissuadono i cinesi e gli altri dalle transumanze. Un resto si raccoglie a pregare. Anche questo è un campione ecumenico. Pelle bianca e scura sono vicine, anziani e giovani pure. Gli archi gotici sono sorretti dalla preghiera della Chiesa, come dall’arte di chi li eresse. E’ per chi prega che si restaurano le chiese. E’ chi prega a preoccuparsi di trovare i mezzi. L’ordine geometrico delle volte gotiche è perfetto. Un segreto così prezioso da riunire i maestri nella Massoneria. Eppure l’ordine euclideo è inferiore a quello spirituale. Se potessimo vedere l’armonia di qualche cuore semplice nascosto tra i trenta cristiani che stanno pregando adesso a Notre Dame ci sembrerebbe di scorgere la Gerusalemme celeste delle visioni di Giovanni, fatta di oro, carbonchio e zaffiri, fatta di cuori unti dallo Spirito Santo. Oltre le porte del tuo tempio, o Madre, c’è ancora da costruire la cattedrale universale, c’è ancora da annunciare Colui che viene. Come facesti tu ad Ain Karim. E il tramonto d’Israele si mutò in aurora.

Paris, 24 novembre

Non sono mai stato a visitare il Beaubourg, il Museo d’arte Moderna Georges Pompidou. Ho visitato più e più volte il Louvre e il Museo D’Orsay, ma ho sempre trovato file immense di giapponesi e non solo davanti a questo museo. Forse, in realtà, non avevo così tanta voglia … Ma oggi ho deciso. Mangio una soupe e un filetto in una brasserie di fronte e alle 14.00 entro.

Salgo al quarto piano con la scala mobile e comincio la visita. Numerose scolaresche sono presenti coi loro professori d’arte. Non ho visto tanta gente al Louvre o davanti agli impressionisti. Ma potrei sbagliarmi. Guardo Leger e Matisse, qualche Picasso del periodo blu, e mi trovo ancora a casa. Poi mi perdo dinanzi all’arte moderna, mi ricordo del “Reyna Sofia” a Madrid e della stessa sensazione. La mostra su Nancy Spero, classe 1926, morta da poco è gradevole, sarà il tono americano, o perché il video di un quarto d’ora che la fa vedere viva la rende più familiare.

Guardo tutto, come al solito. Ma mi resta poco. Ho nostalgia degli Impressionisti. Vedo un film “La donna dalla barba blu”. Triste nel suo simbolismo. Fuori c’è la sequenza fotografica a grandezza pressoché naturale di una povera donna con il viso e la barba da scimmia. Dopo la morte l’hanno decapitata e messo la sua testa in una campana di vetro. Ne ho orrore. Non per il suo povero volto, ma per la cattiveria scientista di chi l’ha privata d’un sepolcro umano per esporla come in un perenne baraccone da circo. IL commento a lato, di una donna, dice le stesse cose che penso. Sylvie Blocher titola un’opera “Deçue la mariée se rhabilla”, “Delusa, la donna sposata si riveste”: in una luce soffusa, in un stanza nuda un manichino è rivestito con un abito da sposa. Somiglia molto allo scherzo che feci a mia sorella Mattea alla vigilia del matrimonio. Lo chiamai “L’ultimo insulto: natura morta con abito da sposa”. Accanto all’abito nuziale di mia sorella sul manichino c’era lo scopino del cesso ed un rotolo di carta igienica in parte srotolato mollemente sul pavimento. Peccato non averla inviata al Beaubourg. Non sapevo di aver creato un’opera d’arte.

Rimango invece incantato da uno schermo dove si muovono immagini seducenti e multicolori. Si chiama “Biothing”, la “cosa biologica”. Sono algoritmi genetici messi in film da un’équipe americana. Sono bellissimi. Le geometrie del corpo umano coincidono con l’arte più libera. Matematica e poesia, regola e libertà, disciplina e passione coincidono in Dio e sono presenti in tutto ciò che esiste. A noi tocca l’impegno di cercare di comprenderle nel loro equilibrio e rispettarle, conoscerle in noi e nelle altre creature e imitarle. Quanto lontani sono i vani ragionamenti degli scienziati, ebbri del loro sapere, che giocano con la genetica, modificano le creature, inventano mostri. Quanto lontano il relativismo etico, parlare del “diritto delle coppie omosessuali di adottare un bambino”. La natura ha le sue leggi, e sono precise. Se avesse voluto avrebbe dato anche agli omosessuali la possibilità di riprodursi. La biologia come l’astronomia, la matematica come la geografia, la fisica nucleare come l’anatomia parla di una mente creatrice, di un cuore amante e saggio, infinitamente amante, infinitamente saggio. Capisco che tanti non lo identifichino col Dio di Gesù Cristo, ma non comprendo coloro che negano Dio: ignorano queste basi che la scienza stessa dona.

Guardo le immagini in movimento: geometria e libertà, ordine e improvvisazione creativa. Il genoma è come la “jam session” di Dio. Dio che conosce Vivaldi e Mozart suona anche il jazz. E tutto è armonia.
Esco e quasi dimentico la tristezza che mi avevano dato i dadaisti. Salgo al sesto piano e visito la temporanea di Arman. Ci sono dei rifiuti veri messi in una scatola di plastica sigillata: siringhe, pacchetti di sigarette, fazzoletti usati, profilattici, ritagli di giornali, zozzerie d’ogni tipo. Non credo sia arte, anche se la chiamano così. L’artista però c’è. Lo vedo nei pezzi meccanici ed elettrici della Renault composti, nelle seghe da tagliaboschi incollate. Riesce in qualche modo a trasmettere la dialettica tra arte e meccanica industriale, tra libertà e catena di montaggio.
Dal ballatoio immerso dinanzi alle scale mobili, immerso nel vespro si vede Parigi. La tour Eiffel s’illumina col gran pavese natalizio già esposto. Vicino al museo si apre il quartiere Marais, con le sue case così parigine e accattivanti. Da Notre Dame mi sorride la Vergine. Guardo il Pantheon, penso al pendolo di Faucault e alle librerie di Diritto su rue Sufflot, penso al professor VIlley. Riscendo nella grande hall per uscire. Le scritte al neon abbagliano con colori vivi e fluorescenti: rosso, giallo e blu, bianco. Tutto e metallo e plastica. La struttura stessa, dovuta a Renzo Piano, è un’opera d’arte. Le scale mobili esterne scorrono in un tubo di plexiglass. Non c’è che dire: la modernità è ben rappresentata, la sua angoscia meccanica anche. Ho tempo per recarmi in preghiera al Louvre e al Museo d’Orsay.

Gare de Montparnasse, 25 novembre

Arrivo mezz’ora prima di Henri e Brigitte, i miei amici pellegrini a Gerusalemme e visitatori di Serracapriola. Profitto per guardare i dettagli della stazione. Le luci al neon infastidiscono i miei occhi. Il resto, se non è perfezione, è eccellenza. In evidenza, tra le altre scritte, l’insegna dell’Ufficio Oggetti smarriti. Una parte della grande serie di biglietterie è separata da grandi vetrate e riservata ai TGV. Leggo i servizi che offrono e che mi sono sconosciuti nella bella Italia, come la consegna bagagli a domicilio. Una persona anziana o malata, o chiunque ne abbia piacere o necessità, può consegnare i bagagli a casa e ritrovarli sul treno. “Etonnant”, sorprendente!

I viaggiatori sono un fiume in piena. Usano con scioltezza le numerose macchine elettroniche poste in sequenza logica sul cammino che va dalla Porta Ocean verso i treni. Le località che i treni raggiungono sono esposte sui tabelloni neri. Sono tutte città della costa atlantica. Le città dell’Est sono raggiunte con partenza dalla Gare de l’Est, quelle del Nord, fino a Londra, dalla Gare du Nord, Lione e la Savoia, l’Italia e la Svizzera dalla Gare de Lyon. IL genio sta nella semplicità che si fa efficienza e armonia, nell’organizzare i trasporti come nel potare gli olivi o scrivere l’Etica a Nicomaco.

Davanti ai binari sono ancora impressionato dai tabelloni elettronici. Riportano, oltre la destinazione, la composizione del treno, quella che a Foggia o a Bologna devo ancora cercare con fatica. Lo schema delle carrozze è preciso. “Vous etes ici”, come nei musei e nei buoni aeroporti, dice la scritta in giallo che ti fa capire dove si trova la tua carrozza. La nostra è la 18, legge Henri sul biglietto. Due passi tranquilli per raggiungerla. Il traffico umano scorre veloce, fluido. Non vedo nessuno che si fermi a chiedere. Il viaggio è esperienza, efficienza, arte. Sul binario vicino si accende di rosso lo schermo elettronico. Un allarme sonoro si sveglia. La scritta dice che l’imbarco è chiuso. Inutile correre dietro al treno. Non si può più salire. Tanto tra nemmeno un’ora ce ne sarà un altro.

Il treno per Nantes parte in orario. Arriviamo con un paio di minuti di ritardo. Henri ha la macchina nell’immenso parcheggio multipiano. Puoi lasciare l’auto per un giorno o due. Puoi fare, come lui, un contratto annuale e risparmiare molto. Prendiamo l’auto e in un’ora e mezza siamo a Nouarmoutier, in Vandea, sull’oceano Atlantico. In due ore di treno e un’ora e mezzo di auto abbiamo fatto quasi Foggia – Firenze. Ti cambia la vita. I pendolari che hanno un tale sistema di trasporti arrivano meno stressati, tornano a casa. Esagero? Forse hanno più voglia di abbracciare il coniuge. Le ferrovie francesi favoriscono la natalità? Penso di sì, accanto alle buone leggi per la famiglia.

Noirmoutier, 27 novembre

Ieri sera ho partecipato con Henri e Brigitte al “Parcours Alpha”. Si tratta di un’esperienza di nuova evangelizzazione che viene dal mondo anglicano. Una cena tra i partecipanti, in cui i tavoli sono formati con criterio. A ciascuno di essi partecipa un volontario che ha già fatto il percorso e fa da animatore. Dopo la cena il responsabile del percorso intona tre canti cristiani. Si assiste quindi alla proiezione di un film. Un signore francese che si chiama Marc parla al pubblico in una grande sala. Con l’aiuto solo di uno schermo su cui appaiono i temi che sta affrontando e, ogni tanto, qualche versetto della Parola di Dio. Marc, mi spiega Henri, lavorava a Londra. Ha conosciuto il percorso Alfa alla cattedrale anglicana, St. Paul, e l’ha importato in Francia. Nel video Marc parla con voce calma, ma a ritmo. Lo sguardo è luminoso: ci crede. La comunicazione è profonda, ma il linguaggio è semplice, da tutti comprensibile. La logica è stringente. Non una logica filosofica, di concetti aerei, ma la filosofia della vita, la connessione causale delle situazioni quotidiane, in cui ciascuno può riconoscersi. Ogni tanto si ha la memoria di atteggiamenti da scuola di marketing. Un po’ come hanno i grandi predicatori protestanti americani, come Billy Graham. In realtà Marc non vende nulla: dona lo Spirito Santo. Dopo il video la gente parla, ogni gruppo al suo tavolo. Io son stato messo al tavolo del servizio, tra “gli iniziati”. Henri mi ha spiegato che questo è un metodo di evangelizzazione promosso da laici e che vuole avere un linguaggio “laico”, non da prete. Pensando a certi preti, al loro linguaggio fuori della storia, non posso che meditare. Accetto volentieri di essere in disparte. Sono qui come studente, per imparare quello che lo Spirito produce sulle strade del vangelo, mentre noi parliamo da anni di “Progetto culturale” e, come si dice in dialetto pugliese, “ariamo la nebbia”.

E lo Spirito santo c’è, a mio modesto avviso. Lo si sente nell’aria, lo si nota sulle facce della gente, lo si costata dalla progressione dei numeri e dalla crescita cristiana di tante persone che hanno già partecipato ed ora sono volontari del vangelo che hanno ricevuto: “Contemplata aliis tradere”, consegnare agli altri le realtà che abbiamo contemplato. Come dice Giovanni: “Ciò che i nostri occhi hanno veduto …. Noi lo annunciamo a voi!” (1 Gv …).

Lo Spirito conduce anche i piccoli eventi della storia, o ce li mostra sotto una luce che tende in ogni caso al bene. La “lettre de paix liturgique” mi tormenta con affetto “tradizionale”. Sto eliminando l’ultima dalla mia casella di posta, ma all’ultimo istante vedo un nome nell’oggetto: “Mons. Nicola Bux”. Ma lo conosco, o quanto meno l’ho conosciuto tra il 1984 e il 1987 a Santa Fara – Bari. Insegnava ai nostri frati. Io non l’ho avuto come professore.

Vado nella sezione posta eliminata e leggo la lettera. Bux, che nel frattempo è diventato consultore della Sacra Congregazione per la Liturgia, sostiene la positività di diffondere la Messa antica in latino presso tutte le parrocchie. La Messa nel rito antico aiuterebbe molto a scoprire il senso del mistero … [….]. Penso alle povere liturgie africane … così povere, così ricche. La liturgia africana, carica della danza di Davide davanti all’arca del Signore. Perché la schiena d’un prete bardato con broccati antichi, manipolo e babucce, dovrebbe ispirare maggiormente il senso del mistero rivelato che il viso di bimbi africani che lodano il Signore come gli uccellini? Il mio ginocchio è perennemente piegato dinanzi al Santo Padre. Il suo motu proprio è legge della Chiesa. Ma il mio cuore non accetta di equiparare l’incomprensibile a “sacro” o “maggiormente significativo per il sacro”. Puto me habilem esse latinae loqui. Una volta ho parlato in latino con un prete croato che non parlava nessuna delle lingue moderne che conosco (inglese, francese, spagnolo). Viene facile ed è bello parlare di filosofia del Diritto o di Giurisprudenza e citare Celso o Cicerone, Ulpiano o Gaio …. Ma si tratta di una lingua per circoli culturali, non per il popolo che canta al Signore la sua liberazione pasquale. Proprio in questa terra di Francia la Vergine Maria ci ha dimostrato storicamente il principio teologico di San Tommaso: “Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur”. (Tutto ciò che è ricevuto, è ricevuto secondo la comprensione di chi riceve). Perché la Vergine non ha parlato in latino o greco alla fanciulla Bernadette? E nemmeno in ebraico? Ma soprattutto … perché non ha parlato in francese? E già, perché la piccola pastorella parlava il suo patois dei Pirenei. A Lourdes la gente usava un dialetto a metà tra francese e spagnolo. E la Madre di Dio, la piena di Spirito Santo, si rivolge alla figlioletta francese in dialetto, quand’ella le chiede, obbedendo all’ordine del curato, il suo nome: “Que soy ero la imaculado concepciu”. Io sono l’Immacolata Concezione.

Vivano in pace i fratelli e sorelle che, usando il dono che il Papa ha fatto alla Chiesa, vogliono celebrare in rito antico e in latino. Ma non si dica che questo favorisce il senso del mistero, che ha un valore di pedagogia cristiana. Il mistero di Dio si rivela nel “volgare” più totale, nell’assenza totale dei lini e dei pizzi che fanno la gioia delle sacrestie “ancien régime”. Il mistero di Dio si rivela tra la paglia, il bue e l’asino. Si rivela nella lode silente e popolare dei pastori. Si rivela lontano dalla sinagoga, nella liturgia degli angeli e dei poveri, sotto la luce della cometa e in presenza di sapienti venuti da lontano per comunicare con Giuseppe e Maria nel più semplice del linguaggi possibili, forse con gesti, chissà. Il mistero di Dio si rivela al centurione romano in acqua e sangue che sgorgano dal costato del Figlio crocifisso e morto, lontano dal Tempio, fuori dalle mura della città santa. Francesco a Greccio riportò Dio nel linguaggio della gente. L’emergenza pedagogica di cui parlano i nostri vescovi con amorosa preoccupazione passa per la riscoperta di linguaggi popolari immediati e comprensibili, non nel recupero archeologico di parole e segni museali. I “Linguaggi più sottili” di cui parla Charles Taylor, Francesco li cercava e trovava nel 1200. Ora tocca a noi trovare i nostri, per il nostro tempo.

[Esco. Parlo a telefono con Gianni Liprandi a Torino. Gli propongo una serie di reportage dalla Francia: “Taccuino francese”. E’ contento. Accetta. Mi darà la prima pagina su Testatadangolo.it ]

Paris – Montparnasse, 2 dicembre

L’ex ministro provinciale dei Frati di Francia, André Menard, è qui a rue Boissonade. Parte tra qulache giorno per gli emirati arabi, dove il vicario apostolico è il nostro fratello Paul Hinder, originario della Provincia Svizzera.

Negli “Acta Diurna”, dopo le lodi e l’eucaristia conventuale, viene fuori, da parte mia, la questione liturgia latina. Critico l’osservazione che viene da alcuni: la liturgia antica, in latino, aiuta a recuperare il senso del mistero. Parlo di Lourdes e della rivelazione in patois della Vergine. André, che è un teologo bonaventuriano, dice: “Il mistero noi lo riceviamo e comprendiamo nella lingua nativa. E’ quella la lingua profonda, quella del nostro essere”. Il pensiero è alto. Aggiungerei col caro Carl G. Jung: “E’ quella la lingua in cui sogniamo”. Il nobile latino, che cito volentieri nelle versioni giuridiche o dell’aquinate … non è la lingua del nostro …. Amore con Dio.

Paris, Carrefour de l’Odeon, 4 dicembre

Tocca a me portare a cena il carissimo diacono, don Francesco Armenti, “ab immemorabilibus” collaboratore egregio de L’Amico del Terziario. Lo conduco all’amato Café les éditeurs, al carrefour de l’Odeon.
Parigi è coperta di un leggero manto di neve. Mi sembra di rivedere Mimì (ma il suo nome è Lucia) nella Bohéme che ho visto cinque anni fa all’Opéra Bastille. Victor Hugo disse che nessuno aveva saputo rendere la Paris di metà ottocento … come quel musicista italiano, Giacomo Puccini.

In effetti il quartiere latino, il “sisiéme” è quanto di più italiano ci possa essere a Paris. Tra St. Germain de Prés e il Bld du Montparnasse, frontiera della Bretagna, tra Notre Dame e il Panteon, fino a Port Royal e l’Observatoire, gli italiani più sensibili, gli artisti e gli studenti, i profughi politici e gli innamorati si sono installati e perduti, con piacere sottile. Un italiano a Londra può anche divenire famoso, fare i soldi, diventare potente … ma sarà sempre un altro elemento, come legno e ferro. A Parigi, qui in particolare, gli italiani si fondono con la città. Dopo qualche anno non li distingui più. Lutetia è sorella di Roma, i sassi gallici arcaici sono stati troppo squadrati tra “cardo” e “decumano” latini per essere altro. La latinità è una realtà, ha un senso, coinvolge, ovviamente, spagnoli, catalani e portoghesi, si estende nel tropico del Capricorno, impera in Argentina e Brasile, in Cile, Venezuela, Colombia e Bolivia, nell’America Centrale regna. Estende propaggini a Bucarest ed in Croazia, dove si mescola con la modernità latino – veneziana.
Qui non c’è il povero Benito. Qui c’è un frate di santo Francesco, poeta e viaggiatore, che sente tra l’Odeon e rue Sufflot la memoria vivente di giuristi e poeti, di studenti e lavapiatti, di artisti, cantanti e sindacalisti italiani che qui … si sono sentiti a casa, ritrovati accanto al focolare bianco-rosso.blu dei diritti umani. Di qui sono partiti o qui si sono spenti, sognando.

Al “Café les editeurs” l’Italia stasera è rappresentata da me e don Francesco, diacono della diocesi di San Severo. Ho prenotato alle 18.00, chiamando da Montparnasse. Il numero me l’ha dato Google, appena ho inserito il nome del café. Questo Puccini non lo poteva fare … e nemmeno Victor Hugo!
Ci danno un tavolo a ridosso della vetrata. Lascio a don Francesco il posto di spalle alla strada. Io devo guardare. Alla mia sinistra il Bld. St. Germain, alla destra la rue de Condé e, un po’ più a sinistra, in fondo, l’Odeon, teatro d’Europa. Di fronte a me “Le Comptoir”, già col gran pavese per Natale.

La gente passa e ripassa. Sembra che la temperatura si alzi un po’. Abbiamo costeggiato il Luxembourg , superato rue de Medicis e la place Claudel su uno strato di neve quasi ghiacciata. Ora noto che le auto sollevano acqua. S i scioglie. Una ragazza bionda con stile da modella passa davanti al mio naso sulla strada. Entra, si siede accanto a noi. “Bonsoir!”, “Bonsoir, madame!”. Mangiamo tranquilli, don Francesco ed io. Beviamo un po’ … di quello buono: “St. Julien, grand cru”. Io resto a guardare la strada, le auto che passano, lo scalpiccio della gente. Da un momento all’altro mi aspetto che entri Puccini, o Hugo … o la povera Lucia, che si consuma di tisi per il freddo.

A Londra un italiano può anche diventare ricco, ma non si mescolerà mai. Come non possono legno e ferro. In America l’italiano si perde nel melting pot. A Parigi si fonde con la città. Sotto la montagna di st: Génévieve, tra il pendolo di Foucault e la Gare de Lyon e le sue memorie, gli italiani più sensibili, più folli, più artisti, si perdono gioiosamente in questa città che ogni giorno rappresenta oltre 500 spettacoli di prosa. Ma c’è da aggiungere il melodramma, il musical. Auguri al mio amico Michelangelo Loconte, da 13 mesi impegnato con “Mozart l’Opera rock” au Palais du Sport alle Porte di Versailles. Domani è il suo compleanno. Cerignola – Italia – Parigi.
Ritorniamo per il Bld. St. Germain de Prés, poi Bld. St. Michel. Vedo uno di quei bagni chimici … che non ho mai usato. La presenza di Francesco mi dà coraggio. Entro …. Il Paradiso: un bagno pulitissimo. Una voce elettronica m’invita ad usare lo scarico in maniera calibrata, secondo … il bisogno. La mia emissione è leggera, se non leggiadra. Tiro la dose ridotta di acqua. La voce mi ringrazia per il mio rispetto dell’ambiente. Esco come dalla toilette dell’hotel Lutetia. Sono arrabbiato con Roma, dove più volte ho vagato per via del Corso senza trovare un cesso. Sono arrabbiato con l’Italia…. Perché non imita Parigi.

Aeroport Charles De Gaulle, Terminal 1, 7 dicembre h. 13.00

La neve cade leggera tutt’intorno. Così il paesaggio parigino che mi saluta sembra una steppa russa. Per fortuna siamo a circa zero gradi e non c’è ghiaccio, nessun ritardo di volo annunciato. Le piste dell’aeroproto, tuttavia, sono un’immesna distesa bianca.

Questo soggiorno è stato dominato da Claude Monet. Era cominciato con lui al Museo de L’Orangerie, dove mi ero immerso nei grandi quadri delle ninfee. Trent’anni d’ininterrotta attività a Giverny per circondare lo spettatore con le emozioni dell’artista, o forse circondarlo di quegli aspetti di luce ed acqua, di verde e di blu, di ombra e luce, di colore e non colore, di nitore e bruma, di realtà e fiaba da cui il maestrosi era lasciato sommergere.

Lo stesso giorno mi ero recato al vicino Musée d’Orsay, passando per la passerella Leopold Senghor. Una scritta annunciava che Monet era temporaneamente trasferito al Grand Palais, per una esposizione a livello mondiale con sue opera giunte dai quattro angoli del pianeta. Sedotto e abbandonato, ho deciso in quell’istante che ci sarei andato. E poi …. Che furbi i francesi. Mentre mezzo museo è altrove, restringono i restanti dipinti nei piani in basso, bloccano le scale mobili e cominciano grandi lavori di resturo del Museo. Bravi.
Devo contentarmi di Sisley, Manet e Pisarro, di Gaugain e Van Gogh. Non mi lamento, ma il desiderio di Monet cresce. Ci saranno opere che potrò vedere solo questa volta.

Così ieri son partito verso le dieci per il Grand Palais. Il bus 83 mi ci porta davanti. Mentre mi oriento per trovare l’entrata vedo sulla destra, al Pétit Palais, oltre la statua di Churchill, gli striscioni di un’altra esposizione: “De Nittis: La modernité élégante”. Il quasi paesano, il barlettano De Nittis. Vado prima da lui e poi da Monet …. Pas possible. Il lunedì il Pétit Palais riposa. Mi avvicino a grandi passi nell’aria fredda all’ingresso di Monet. Supero una fila enorme, gente in attesa dvanti a un’altra mostra sulla pittura francese tra Medio – Evo e Rinascimento. Spero che da Monet ci sia meno gente …. Macché. E’ peggio! Il cartello sadico dice: “Da questo punto ci sono circa tre ore di coda. Vi conviene farvi la carta – museo, che “taglia la fila”. Un po’ mi sembra un espediente napoletano. Difatti qualcuno ha appuntato a penna in francese: “Non ci prendete in giro. Cercate sempre modi per far soldi”. In effetti l’arte costa cara.

Due signore almeno settuagenarie mollano dopo quaranta minuti. L’aria è gelida, a volte comincia a nevicare, poi si ferma e ghiaccia. Faccio movimenti di riscaldamento, mi tolgo i guanti e sfrego le mani prima di rimetterli. Ogni tanto la fila avanza. Un gruppo di trenta – quaranta avanza verso il museo. Non si vuole più solo Monet, ma un po’ di caldo … una toilette.
Un artista di strada è lì, col suo clarino. E’ bravo. Proprio bravo. Molti gli mettono qualche spicciolo nella cerata aperta sul terreno. Infine arriva il gesto del buon Caronte che ci dice di avanzare. Dopo l’Inferno dell’esterno ghiacciato passo per il Purgatorio di un cesso … ben irrigato da uomini con qualche parte infreddolita e, forse, poco governabile. Ci vorranno molti metri di moquette del museo e qualche pozza d’acqua fuori per lavarmi le suole. Per quanto sia andato … in punta di piedi.

Girato l’angolo il paradiso di Monet si dischiude lentamente, con le opere giovanili, i dipinti della costa normanna. Poi lentamente ci si addentra nel grande impressionista. Gli amici dicono che andava in giro con quattro, cinque ragazzi armati di cavalletti e tele. Li disponeva in linea e come un folle ispirato dipingeva, coglieva l’attimo di luce, la variazione del colore. Nasce così il polittico della Cattedrale di Rouen, la nebbia del Tamigi è forata da un raggio di sole, e Monet dipinge il consueto Parlamento di Londra con un rosso diverso, con una tonalità ineffabile. E’ Le Parlement, trouée de soleil dans les brouillard”. A 60 anni il maestro ritorna a dipingere il mare, gli stessi posti già amati e abbracciati di pennello e cuore. Ma Varengelille e Vétheuil sono diversi ai suoi occhi. I contorni sono più sfumati. La vita fa crescere le sfumature, le nuances sono segno della saggezza che avanza, anche se la forza fisica decresce. Le dissolvenze dell’anima si stemperano su tela.
In questo contesto di cambiamento il maestro conosce Venezia. Uno dei pannelli dell’esposizione canta il suo incontro con la laguna in questi termini: “A 68 anni Monet scopre Venezia l’intemporale, la misteriosa, la “ville flottante” (città fluttuante) sospesa nella bruma, celebrata da Ruskin e Proust come da Turner e da Whistler. Dopo Venezia non lascerà più Giverny”. Monet aveva già cominciato a lavorare alle Ninfee, dopo Venezia cercherà nei suoi stagni di Giverny quelle atmosfere di acqua, di sospensione tra il regno della fate e quello della realtà. GIverny diventerà per lui quella “terra di mezzo” privata che gli ricorda Venezia che esce dalla bruma per vestirsi di organza e mettere una maschera dorata per il Carnevale.

Nell’agosto del 1908, parlando del suo lavoro sulle ninfee, Monet scrive a Gustave Geffroy: “Sono assorbito dal lavoro. Questi paesaggi d’acqua e di riflessi sono divenuti per me un’ossessione”. Roger Marx, nel giugno 1909, gli attribuisce quest’affermazione: “Mi è venuta la tentazione d’impiegare per la decorazione d’un salone il tema delle Ninfee: trasportato lungo i muri, avviluppando tutte le “parois” della sua unità, avrebbe procurato l’illusione d’un tutto senza fine, d’un’onda senza orizzonti e senza rive: questo ambiente avrebbe offerto asilo per una meditazione “paisible” al centor d’un acquario fiorito”. Ed è questa la sensazione che ti avvolge quando t’immergi nelle due sale dell’Orangerie, una sensazione che ritorna guardando i primi dipinti sul tema qui esposti. Mi rendo conto che il respiro rallenta, il battito cardiaco va con lui, la bellezza placa l’anima. La sensazione è antica: dopo una visita ad un bel museo mi sento … come se mi fossi confessato. Non è lo stesso volto del Creatore che fa capolino da questi quadri meravigliosi? E’ vero, la bellezza salverà il mondo.

Non mi sono fermato a Monet. Prendo un degno boccone e mi butto nel Louvre alle 16.15. L’impiegata mi avverte con garbo: “Guardi che il Museo chiude alle 18.00”. Le dico che lo so, ma devo immergermi per un’ora e mezza nel “Couloir de la Rennaissance italienne”. E soggiungo: “E’ una questione di orgoglio nazionale, comprende ?”. Lei sorride e mi stacca il biglietto.

Quando voglio ricordarmi che grande popolo siamo noi italiani vengo qui. Qui le veline non ci sono, Fede e gli altri ascari del divo Silvio nemmeno. Qui non ci sono i concorsi di Miss Italia. Qui è l’Italia tutta a presentarsi come signora ammirata in tutto il mondo. Peccato che, nonostante possediamo il 70 per cento dell’arte mondiale, non ci sia nemmeno un museo italiano tra i primi dieci visitati al mondo. Non abbiamo una degna politica culturale … e nemmeno l’umiltà d’imitare quelli più bravi di noi, come i francesi.
Silvio va in barca con Putin … e si crede meglio di Leonardo e Raffaello.

La neve ha smesso di cadere. Un aereo è ritardato, non il mio, per fortuna. Sopra Parigi Monet sta dando lezioni di pittura agli angeli. Da una nuvola densa dipingono le piste di Roissy …. Attendendo, col pennello rosso in mano, un raggio di sole che fori la nebbia.

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(Fonte: Antonio Belpiede, TACCUINO FRANCESE)

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