RACCONTO LA STORIA
IL DIRITTO: DITTATURA DELLA LEGGE O RIFLESSIONE PRUDENTE DI LIBERTA'? |
LEZIONE AGLI STUDENTI DELLA CATTEDRA DIISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO, PROF. F. VOLPEUNIVERSITA’ DI BARI – FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZABari, 16 novembre 2010
Di frate Antonio Belpiede OFM CapProfessore di Diritto CanonicoEtude St. Laurent – Bouar – Republique Centrafricaine
PREMESSA
Se è vero che “definitio est solum particula veritatis” (Cicerone), un titolo, in maniera analoga, dovendo restringere un tema ben più vasto e complesso, ne esprime una parte soltanto. In realtà il titolo di questa lezione non intende definire nulla, anzi tende a porre fin dall’inizio due temi: 1. Comprendere cosa sia il Diritto, annunciando nel contempo ch’esso non coincide, come spesso è stato ritenuto, con la legge; 2. Riconoscere che la comprensione del Diritto non passa attraverso una facile definizione, quanto in una riflessione continua e libera del giurista, identificato con la parola “prudente”, proveniente dalla classicità romana. Se il “Mestiere di giurista”[1] consistesse solo nell’applicazione della legge, ricadremmo nella “scomunica laica” che il prof. Paolo Grossi ha espresso in un prezioso libretto, Prima lezione di Diritto[2], che avete già conosciuto in questo corso, nei confronti dei giuristi “conservatori”, aiutanti passivi della legolatria statuale. Se voi doveste intendere, in questo primo anno di studi giuridici che lo scopo del vostro corso di studi è solo conoscere le norme positive dello stato italiano, con qualche integrazione di diritto comunitario e di diritto degli enti locali, sareste come operai che imparano a metter giù i binari della ferrovia, che conoscono la qualità del ferro e le tecniche di fissaggio delle traversine e dei bulloni, ma non sanno di dove sia partito il tronco in costruzione, né dove approderà. Conoscere cosa sia il Diritto significa riflettere in maniera preliminare su quale sia la provenienza del sistema di pensiero in cui ci troviamo ad agire e studiare, cosa c’è dietro la produzione legislativa e la sua attuale bassa qualità, quale debba essere il fine dell’ordinamento giuridico nel quale viviamo. Cominciare con queste domande significa mettere le basi per divenire dei giuristi consapevoli e liberi, capaci di servire il Diritto della città, parola che nel greco di Aristotele suona to dikaion politikon e, in latino, jus civile.
IN PRINCIPIO LA LEGGE? IL DIRITTO COME FENOMENO UMANO
Quando, molti anni fa ahimé, m’iscrissi in questa Facoltà, c’era un uso semantico ambiguo, specie tra le matricole: c’era chi si definiva “iscritto a Giurisprudenza” e chi diceva “mi sono iscritto a Legge”. La seconda espressione, scorretta, risente dell’attuale percezione sottile: la fonte del Diritto è la Legge, che promana dall’autorità dello Stato. Il ruolo del giurista, per conseguenza, è applicare la legge. La legge appartiene alla struttura di uno stato sovrano, che gestisce “l’imperium”, la sovranità. Così come la conosciamo si è sviluppata con gli stati nazionali, anche se già Roma ne aveva fatto uso in epoca imperiale. E tuttavia il Diritto è preesistente ed è ben più che la legge. In ogni società umana tra le relazioni che le persone coltivano esistono relazioni giuridiche. Accanto a relazioni di amicizia, di amore, politiche, cultuali esiste un tipo di relazione che si sostanzia in comportamenti giuridici. Questo tipo di comportamenti, diffuso nella società, tende ad un fine specifico: dare a ciascuno il suo, in latino unicuique suum. Il Diritto si pone come fenomeno umano, naturale, che s’incarna nelle differenti culture con differenze anche sensibili. Si comprende il vecchio brocardo Ubi societas ibi jus, (dov’è la società lì c’è il Diritto). Dire che il Diritto è fenomeno umano è pertanto corretto, purché si consideri le persone nella loro relazione sociale. Non c’è Diritto senza relazione e la relazione avviene tra una pluralità di persone, da due in su. E’ la caratteristica che è chiamata alterità o anche intersubiettività del Diritto. Alle origini del Diritto non c’è ombra di Stato, come lo intendiamo modernamente, con la sua dommatica e la sua “mitologia”[3], c’è invece la società umana. All’inizio dell’esperienza giuridica non c’è nemmeno ombra di legge, strumento tipico dello Stato. Ci sono norme consuetudinarie, comportamenti osservati generalmente che garantiscono il funzionamento della società e la cui violazione è percepita come una ferita sociale.
GIUSTIZIA E DIRITTO
Compreso che il Diritto non coincide affatto con la legge, la quale ne rappresenta solo una delle possibili manifestazioni; chiarito che, evidentemente, non può avere come fine “servire la legge”, occorre chiedersi quale sia il fine del Diritto. Fino all’inizio del XIX secolo tra Filosofia e Diritto c’era una osmosi tranquilla, i filosofi erano sovente buoni conoscitori delle realtà del Diritto: si pensi a Hobbes e Spinoza, Leibniz, Montesquieu e Rousseau, Bentham e Voltaire, solo per citarne alcuni. Ma con Kant le cose cominciano a cambiare. In Il conflitto delle facoltà, e in altre opere egli volle stabilire una ripartizione dei compiti, lasciando ai giuristi un ruolo minore nella riflessione sul Diritto. L’idealismo tedesco approfondirà questo solco. Il giurista tenderà sempre più a essere il servo fedele delle leggi dello Stato, “allergico alla filosofia del Diritto”, relegato ad un ruolo di esecutore della legge. “Il volontarismo e il legalismo glorioso del XX secolo avrebbero generato un positivismo comodo, di cui sentiamo ancora oggi l’onnipresenza , che avrebbe in tutte le sue forme, anche le più esoteriche, respinto la questione fondamentale”[4]. E la questione è: qual è il fine del Diritto? Quali sono le sue fonti? Michel Villey (1914 – 1988) professore nella Facoltà giuridica dell’Università di Paris II – Pantheon Assas dal 1961 al 1982, si è battuto dagli anni ’50 contro quest’impostazione derivante dall’idealismo tedesco, contro il positivismo legista e statolatrico, a favore d’un ritorno al Diritto naturale classico, secondo l’impostazione di Aristotele e Tommaso d’Aquino, che trovò la sua più piena attuazione nel Diritto della Roma classica (fine II secolo a. C. – inizio III sec. D. C.). Egli critica come incerta la metodologia dei giuristi: “Domandate anzitutto da quali fonti dipende la nostra scienza del Diritto, chi saprà rispondere? Dall’inizio del XX secolo i modi di lavorare il Diritto sono in mutazione incessante. I corsi di Diritto professati alla Facoltà furono in primo luogo corsi sui Codici; s’insegnava il Codice e le leggi; ci si esercitava a sussumere sottomessi al testo della legge delle soluzioni particolari […] Ma costateremo che manca sempre, quale che sia, la procedura seguita nell’invenzione del Diritto: il giurista omette di spiegare perché questa autorità suprema riconosciuta alla legge? O, presso un’altra scuola, perché seguire i precedenti della Giurisprudenza? E’ bene aprire le paratie della scienza del Diritto all’irruzione della sociologia?”[5]. Nella sua Philosophie du droit egli inizia il capitolo I col titolo Una filosofia della Giustizia, e sottotitola con la parola greca che esprime il termine Giustizia, dikaiosune. Usa il termine greco perché il primo a porsi il problema del fine dell’attività o arte giuridica, che per brevità chiamiamo Diritto, al singolare e con la maiuscola, è stato Aristotele. Se dovessimo applicare al grande greco le nostre attuali categorie epistemologiche lo definiremmo e filosofo e scienziato e sociologo, ma occorre stare attenti a cogliere queste tre attribuzioni in maniera unitaria, non con le contrapposizioni di metodo del nostro tempo. La caratteristica fondamentale della sua filosofia è stata l’osservazione della natura, in un contesto straordinariamente simile a quello della nostra Puglia. L’osservazione dello stagirita riguarda non solo gli ulivi e il mare, la vite e il fico e le creature della terra e delle acque, ma anche i fenomeni sociali, tra essi il Diritto. Tra le opere che ci sono giunte, nella Retorica egli parla del lavoro dell’avvocato, nella Politica del Diritto naturale. Nelle Etiche egli cerca di descrivere il fine delle varie attività umane, chiamate virtù. C’è una virtù che ha come fine la verità, un’altra il dominio di se stessi. Un’altra la giusta ripartizione dei beni esteriori in un gruppo. Indirizzando il suo sguardo su questi comportamenti, Aristotele ci dona una definizione del fine dell’attività giuridica. Il libro quinto delle Etiche, Etica a Nicomaco,tratta della Giustizia e del Diritto. In esso il filosofo espone il linguaggio che ha ascoltato nella vita fremente della polis greca. Struttura così, naturalmente, l’armamentario di una scienza che non è inventata a tavolino, ma parte dall’osservazione della realtà. Dal nome della dea greca della Giustizia, Dike, viene tutta una famiglia di parole usate dai greci nella loro vita quotidiana: dikaiosune (la virtù della giustizia), dikaios (l’uomo giusto), adikein (agire contro il diritto), adikia (ingiustizia), dikastès (il giudice), to dikaion (il diritto). Questi termini troveranno dei precisi derivati latini in jus, corrispondente a to dikaion, e justitia, dikaiosune, con tutta la loro famiglia: justus, injuria, judex etc. Cercando d’identificare l’oggetto della virtù della Giustizia, Aristotele distingue la giustizia generale da quella particolare. La prima è la summa di tutte le virtù. Quando si dice “Aristide è un uomo giusto” lo si indica come prudente, onesto, leale, temperante, misericordioso. Questa giustizia è chiaramente una virtù morale, che va oltre l’oggetto del Diritto. Se il filosofo la chiama “legale” è perché si riferisce a leggi morali, iscritte nella coscienza collettiva di una società. Villey lo dice con fermezza: “Liberiamoci del nostro modo di parlare moderno. Nel sistema di Aristotele le leggi che formano l’ossatura della giustizia generale – che siano scritte o no, naturali o positive – non sono il Diritto (to dikaion)[6]. Nella giustizia particolare il filosofo identifica una virtù sociale intesa in senso stretto: prendere la propria parte di beni esteriori all’interno del gruppo sociale e niente di più. Qui non c’è più una virtù immensa, che comprende tutte le altre, ma un’attitudine specifica, diversa rispetto ad altre: la prudenza, la temperanza, la fortezza, l’amicizia, la misericordia etc. L’oggetto della giustizia particolare è che “ciascuno abbia il suo”, che in greco suona “ta autòn ekein” e in latino “unicuique suum”, espressione celebre e ancora vivente sulla testata del quotidiano della Santa Sede, L’Osservatore romano. Se la filosofia ha come fine la verità, se l’economia ha per obiettivo l’utilità, il fine del Diritto è la giusta divisione dei beni. La gran parte dei giuristi della Roma classica dirà che l’obiettivo dell’arte giuridica è suum cuique tribuere.
IL DIRITTO NELLA CITTA’ – DIKAION POLITIKON – JUS CIVILE
Avendo compreso cosa sia il Diritto con la maiuscola, cioè il mestiere del giurista, l’arte giuridica, occorre ancora comprendere il diritto con la minuscola, vale a dire nella concretezza della vita quotidiana, nell’esercizio della divisione dei beni nella Polis. Villey dice al lettore in maniera solenne prima di trattarne: “Avvertiamo il lettore che qui si sentirà sconcertato, perché la maggior parte delle definizioni che si danno del diritto nei manuali differiscono da quella aristotelica e il greco e il latino son passati di moda. Ma in fin dei conti egli ritroverà qui, tuttavia, un’idea del diritto che galleggiava nel suo inconscio”[7]. Il dikaion di Aristotele, come il jus latino è un sostantivo neutro. Mentre dikaios, maschile, esprime un uomo giusto, dikaion è il giusto oggettivo, un oggetto qualificato o la giusta misura tra oggetti indistinti; è l’oggetto della giusta distribuzione, una cosa. Nulla a che fare con le virtù dell’uomo, non si parla qui di un giusto soggettivo, all’interno dell’uomo giusto, ma di un giusto che è esterno all’uomo, un oggetto. Quest’oggetto è ancora meson, il giusto mezzo tra oggetti, cose, res. L’affare concreto che riguarda la Giustizia nella città è dare ad ognuno il giusto, il suo dikaion – diritto. Il diritto nella città nel greco di Aristotele risulta esattamente dikaion politikon, in latino jus civile. La filosofia del Diritto di Aristotele è ben conosciuta a Roma quando essa è ancora una città e una Repubblica. Roma, come Atene, dispone di istituzioni giudiziarie specializzate in cui la missione del giudice è dire a chi appartiene questo o quell’oggetto. A Roma si sviluppa, tuttavia, un fenomeno nuovo rispetto ad Atene: “Una corporazione di giureconsulti che hanno per funzione di guidare il giudice e la procedura, enunciando le regole del diritto. Roma, grazie al lavoro dei suoi giureconsulti, ha creato la scienza del diritto”[8]. Nel suo De oratore[9], Cicerone esprime il desiderio di comporre il Diritto in arte (Jus in artem redigere), cioè organizzare l’esperienza dell’Jus civile nell’Urbe in un corpo organizzato di conoscenze, come in Grecia è già accaduto per la matematica, l’astronomia e la musica. Quest’opera, egli continua, può aversi solo con l’ausilio della filosofia, che offre una logica per ordinare le nozioni e che, soprattutto, determina il fine, la nozione prima su cui costruire le divisioni metodiche e il linguaggio. Interrogandosi sul fine, Cicerone ce ne dona una definizione che risente in maniera patente di Aristotele:il fine del diritto è la aequabilitatis conservatio, cioè mantenere il più possibile l’osservanza della giusta proporzione sulla base delle leggi o degli usi negli affari (res) e nei processi dei cittadini (causae). I cittadini (personae), le cose (res) le azioni (causae), ecco la tripartizione delle istituzioni romane del diritto. Il dikaion aristotelico è divenuto in Roma il Jus civile. Il giurista romano possiede una comprensione tecnica della sua scienza e del suo oggetto. Non rischia di perdersi in astrazioni soggettiviste. Il suo compito è concreto. Tra i frammenti conservati nel Digesto si trova una definizione di Jus attribuita al giurista Paolo (Dig. Tit. I frammento 11): Id quod equum est. E’ lo stesso senso del dikaion politikon di Aristotele. In una fase di recupero della classicità e di sua proiezione verso l’Europa che sta sorgendo, nel XIII secolo, San Tommaso lo chiamerà id quod iustum est – res iusta. Il diritto non è pertanto un insieme di regole poste dall’autorità, ma l’oggetto concreto nella giusta ripartizione dei beni nella polis. Compito del giurista è interpretare, adattare al caso concreto ciò che proviene per vie diverse dalla tradizione. Nello stesso Digesto, (De regulis juris 50.17.1) si dice: “Jus non a regula sumatur sed a jure, quod est, regula fiat”. “Il diritto non venga dedotto dalla regola, ma dal diritto, che esiste, venga tratta la regola”. Dice ancora Villey: “Queste non sono definizioni inutili. Tutta la struttura della scienza del Jus civile dipende da queste nozioni primarie. Il diritto a Roma non sarà un sistema di norme insegnate autoritariamente, ma lo studio delle realtà. La Giurisprudenza, dice Ulpiano (D. 1.1.10) è scienza del giusto e dell’ingiusto nella realtà sociale, tratte dalla conoscenza delle cose. […] L’arte romana della jurisdictio non consisteva nel prescrivere, col modo imperativo, l’osservanza di regole di condotta. La scienza del diritto romano classico si dona per missione di dire, col modo indicativo, ciò che appartiene a X o a Y; dei rapporti giusti che scopre in seno all’organismo sociale. Io vedo qui la chiave della dottrina classica del diritto naturale”[10].
POSITIVISMO INCRINATO E NECESSITA’ D’UNA NUOVA PRUDENTIA JURIS
Ho letto con gusto e voracità Prima lezione di Diritto[11], di Paolo Grossi, grande maestro e ora giudice della Corte Costituzionale. Oltre che dettare le linee fondamentali per ben iniziare un corso di studi giuridici, oltre che adottare un linguaggio piano per voi studenti, affettuosamente chiamati “novizi”, fornendovi a un tempo contenuti sostanziosi, il libro rappresenta anche un serio J’accuse al formalismo dei nostri tempi. Non solo Grossi evidenzia l’ipocrisia delle “mitologie liberali” nella loro genesi storica, l’idolatria del Parlamento e delle leggi, presunta espressione della volontà popolare, ma rivela acuta attenzione ai nostri tempi quando guarda gli orizzonti del Diritto nell’epoca della globalizzazione e contesta l’involuzione in atto in Italia. La “sempre più folta attività legislativa [… composta da] una farragine di leggi il più delle volte improvvisate e malfatte”[12] . Lo Stato liberale è entrato in crisi, con i suoi limiti e le sue ipocrisie. Legato ad esso era il mito della legge, il jus positum, da cui derivano i vari positivismi giuridici, sostenitori della “dittatura della legge”. Pure è nei tempi di crisi (in greco classico “crisis” non ha una connotazione necessariamente negativa, vuol dire tempo di cambiamento deciso) che si fanno le grandi scelte, si operano le conversioni, emergono nuovi soggetti sociali. Tempo fa rimasi scioccato dall’apprendere che in Italia esiste un numero di leggi dello Stato superiore a quelle di Francia, Germania, Regno Unito sommate insieme. Ho coniato un termine per esprimere il fenomeno: Gattopardismo legislativo. Cambiare tutto perché nulla cambi. Altro dato stordente: nella sola Roma esistono più avvocati che in tutta la Francia. Ancora, se si parla troppo di “giusto processo” o di “processo breve” s’indica una tautologia che evidenzia la difficoltà del sistema. Il processo è giusto e breve o è solo l’abito formale di un atto iniquo che è il negare o ritardare giustizia. Altri dati di crisi ci vengono direttamente da chi riveste le più alte magistrature. Non dimenticherò per tutta la mia vita la tragica distonia semantica tra via dei Fori Imperiali il 2 giugno 2008, le Forze Armate che sfilano, il tricolore sventolante, l’inno nazionale … e il medio levato al cielo dal senatore Bossi, che pure ha giurato fedeltà alla Repubblica e alla sua Costituzione. L’Italia, “culla del Diritto” scivola sempre più verso una decadenza antigiuridica? In questo contesto di decadenza del positivismo giuridico mi pare trovi spazio un recupero in chiave moderna della Giurisprudenza. Lo dice Grossi, quando parla del ruolo creativo e di custodia dell’ordinamento che svolge la Corte Costituzionale. Questa “con la propria incisiva giurisprudenza, non si è data solo carico delle resistenze e degli abusi del nostro Parlamento avverso i dettami della Costituzione, ma si è assunta, specie negli ultimi anni, un ruolo mediatore tra pluralismo dei valori d’una società e sordità dei testi legislativi”[13] (p. 91). La sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 1994 (Cass. Civ. Sez. Un. 2 agosto 1994, n. 7194) sottolinea ancora l’importanza dell’operazione interpretativa per trasformare il diritto positum nel testo scritto in diritto vivente nella vita della società[14]. Ma proporre un cammino di ritorno ad una Prudentia Juris significa aggiungere all’amministrazione concreta del diritto, lavoro tipico del giudice, una riflessione sui bisogni della società che emergono gradualmente. Parlando del Diritto naturale come “manifestazione del diritto”, Grossi esprime la critica generale ad una idolatria del Diritto Statuale che ha prodotto leggi orribili (l’esempio classico sono le leggi razziali della Germania nazista) e tuttavia resta tra nostalgia d’un diritto superiore ed impossibilità di esso: “L’idea del diritto naturale, di ogni legge naturale, non incarna altro che un tentativo di soluzione, forse ingenuo o illusorio, all’eterno problema umano di un diritto giusto”[15]. Grossi aveva peraltro avvertito che il termine “diritto naturale” è polisemico, può essere inteso in maniere molto diverse. Infatti la sua non è quella di Michel Villey. Questi per distaccarsi da ogni possibile confusione parla di “diritto naturale classico”, vale a dire quello che veniva vissuto dai giuristi romani, da quei giureconsulti formati dalla filosofia di Aristotele e dalla prassi fluida, straordinariamente concreta della Roma repubblicana. In un omaggio In memoriam a Villey, scrive François Vallançon: “Michel Villey ha opposto il diritto naturale classico e il diritto naturale moderno. In questo la natura è fissa, neutra, fatta di individui. In quello la natura è mobile, buona, fatta di relazioni”[16]. La lezione aristotelica sulla distinzione tra Giustizia generale, che è ambito morale, e Giustizia particolare, che attribuisce a ciascuno il suo, ci facilita la comprensione e la distinzione tra principi etici naturali, uguali per ogni uomo, e per ciò stesso rari e generalissimi, e un diritto naturale che non perde di vista il to dikaion, la res iusta. Questo è tutt’altro che un’ipostasi etica immutabile, lo si trae nell’evoluzione storica, nella fluidità della società. Uno studioso spagnolo, Javier Hervada, ha colto le relazioni tra Diritto Positivo e Diritto naturale in una unità del sistema giuridico, che è in parte naturale e in parte positivo. Questo principio di unità ha tre specificazioni: ”1. La legge positiva si genera dalla legge naturale come determinazioni riguardanti i mezzi convenienti ed utili per il raggiungimento dei fini naturali dell’uomo; 2. Il potere di emanare norme positive è di origine naturale, dal diritto naturale infatti derivano sia il potere sociale che la capacità d’impegnarsi e stipulare patti; 3. Le relazioni giuridiche basilari e fondamentali, di cui le altre sono derivazioni, complementi o modalità storiche, sono naturali”[17] (Hervada p. 179). Da questa unità deriva una relazione armonica tra diritto naturale e diritto positivo che Hervada chiama “positivazione e formalizzazione del diritto naturale”. Siamo lontani sia dal positivismo legista e statalista come da un giusnaturalismo metafisico perduto nella sfera etica.
CONCLUSIONE: L’ORGOGLIO DEI PADRI NEI FIGLI
Quando ero una matricola in questa facoltà (ricordo ancora il numero 046340 P) non mi fu dato di cogliere la differenza tra “studiare Legge” e “studiare Giurisprudenza”. Ciò è avvenuto molti anni dopo. La sensibilità del vostro maestro, il professor Fabrizio Volpe, nell’offrirvi una parte introduttiva, anziché gettarvi ex abrupto nella esegesi del Codice Civile, costituisce per voi una chance per cominciare nel modo giusto questo corso di studi e per pensarvi come giuristi professionisti in un mondo in veloce cambiamento. Non siete chiamati ad essere dei servi docili di un fantomatico Legislatore che ha perduto molta della sua dignità passata. Come giuristi italiani dovremmo fare continuo ricorso alla memoria dei nostri grandi padri, i giuristi romani. L’intero mondo occidentale, sia i paesi di civil law che di common law, si regge ancora sulle grandi intuizioni di Roma. In questo 2010 la geografia è stata, a quanto pare, eliminata dai programmi di studio delle Scuole superiori. Mi viene in mente mestamente la figura di un presidente degli Stati Uniti che, durante la campagna elettorale non sapeva dove si trovasse l’Iraq, ma poco dopo scatenò proprio lì una guerra: “ignorantia geographiae non excusat”. Già Michel Villey, negli anni ’50, reintroducendo con determinazione la Filosofia del Diritto nel panorama positivistico dei giuristi francesi, rimpiangeva l’eliminazione dei corsi di Diritto Romano dal piano di studi. Vent’anni fa, presentando la traduzione italiana della sua opera di introduzione al Diritto naturale, il prof. Hervada, parlando di sé autore in terza persona affermava: “L’autore sa bene che l’Italia è stata la culla della scienza del diritto, nata dal talento dei giuristi romani. Così pure nell’italiana Bologna la scienza giuridica europea – nei due rami di legisti e canonisti giuridici - ebbe la sua rinascita con Irnerio e Graziano […] Si richiede un certo ardimento per comparire in tale contesto, con un libro i cui limiti sono ben noti all’autore […] Tuttavia […] sua intenzione altro non è che far risuonare di nuovo la voce dei giuristi romani, quando definirono il compito del giurista come la iusti ac iniusti scientia e la giustizia come la costante e perpetua volontà jus suum cuique tribuendi, di dare a ciascuno il suo diritto, cioè la cosa dovuta in giustizia”[18]. Crediamo che questa Italia in cui le leggi sono fatte più da incolti tribuni in cravatta verde che da esperti giuristi abbia bisogno di questo. Crediamo che questo mondo veloce, questo mondo globalizzato, abbia bisogno di tornare ad un’autentica sapientia juris. C’è qualcosa di simile tra gli arditi esperimenti genetici e gli OGM da un lato, e il positivismo legista dall’altro: un’arroganza decadente. Il sole nasce da est e va verso ovest; ci vogliono nove mesi perché un bambino nasca; i fiumi vanno da monte a valle. In una parola, esiste un ordine nel cosmo, ma anche nelle relazioni giuridiche tra gli uomini. Il primo va accettato, conosciuto, usato per il bene comune, non violentato. Il secondo va cercato “nella natura dei fatti”, nella fisiologia dei rapporti nella città degli uomini, con l’obiettivo di dare a ciascuno il suo. Esiste nella lingua inglese un lemma molto diffuso: the right thing, la cosa giusta. I giuristi romani l’avevano capito ventidue secoli fa. La ipsa res iusta del giurista italiano oggi è recuperare l’orgoglio dei padri, la loro saggezza giuridica e coniugarla in questa modernità liquida. Questo, credo, è un vostro diritto, cari studenti, ma anche vostro dovere. Auguri a voi, di cuore.
BIBLIOGRAFIA RAGIONATA
Le opere di Michel Villey sono tutte in lingua francese. Esiste una traduzione italiana della sua opera maggiore, La formazione del pensiero giuridico moderno, della Jaca book, introvabile, ma che potrebbe essere in qualche biblioteca ben fornita. Nella vasta produzione del professore scegliamo solo quelle opere che, a nostro avviso, possono maggiormente interessare uno studente attento all’inizio dei corsi di Giurisprudenza. Le citazioni dai libri di Villey e da altre opere francesi sono state da noi tradotte.
Bauzon, S., Il mestiere del giurista, Il diritto politico nella prospettiva di Michel Villey, Giuffrè, Milano, 2001.
Grossi, P., Prima lezione di diritto, Laterza, Roma – Bari, 201015. Hervada, J., Introduzione critica al diritto naturale, Giuffré, Milano, 1990; un libro che orienta alla scoperta del diritto naturale classico della grande tradizione romana; Niort, F., - Vannier, G. (Edd), Michel Villey et le droit naturel en question, L’Harmattan, Paris, 1994 ; Miscellanea in memoria di Villey di giuristi francesi, saggi di grande interesse. Villey, M., La formation de la pensée juridique moderne, Puf, Paris, 2003; un’opera ponderosa, di grande fascino, che attraversa i percorsi intellettuali dei giuristi in occidente dai teologi cristiani fino a Thomas Hobbes;
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[1] Così è titolato un lavoro di Stefan Bauzon sul Diritto Politico in Michel Villey. S. Bauzon, Il mestiere del giurista, Il diritto politico nella prospettiva di Michel Villey, Giuffrè, Milano, 2001. [2] P. Grossi, Prima lezione di diritto, Laterza, Roma – Bari, 201015.
[3] E’ Paolo Grossi ad usare diffusamente il termine per denunciare semplicismi e mitologie delle nozioni e dei principi fondanti la civiltà giuridica moderna. P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano, 20073. [4] Terré F., Preface a villey m., Philosophie du droit, definitions et fins du droit, le moyens du droit, Dalloz, Paris, 2001, p. V. [5] Villey M., Philosophie du droit, cit., p. 10. [6] Villey M., Philosophie cit., p. 48. [7] Ibidem, p. 53. [8] Ibidem, p. 67. [9] De oratore, I – 188 ss., cit. in Villey M., Philosophie … cit., p. 67. [10] Villey M., Philosophie … cit., p. 70. [11] Grossi, P., Prima lezione di diritto, Laterza, Roma – Bari, 201015.
[12] Grossi P., Prima lezione … cit., p. 67-68. [13] Grossi P., Prima lezione … cit., p. 91. [14] Ibidem, p.111. [15] Ibidem, p. 85. [16] Niort F. - Vannier G. (Edd), Michel Villey et le droit naturel en question, L’Harmattan, Paris, 1994, p. 14. [17] Hervada J., Introduzione critica al diritto naturale, Giuffré, Milano, 1990, p. 179. [18] Hervada J., cit., p. V.
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