SIGNORE, MOSTRACI IL TUO VOLTO
NELLA SPLENDIDA IMPERFEZIONE DEL CREATO
(note sul libro di Alessandro Meluzzi di Antonio Belpiede OFM Cap)
Roma – Borgo Pio, Centro Russia Ecumenica, 26 maggio 2010
Ricordo un sospiro saggio di Karl Rahner infisso nella mia memoria di giovane studente di teologia: “Colui che è fin da principio, che percorre come presenza tutta la storia della salvezza, è Colui al quale si chiede alla fine della Bibbia: “Vieni!””. Maranatà.
Venire. Si viene una volta per tutte ad un evento conclusivo o non piacevole, ad un luogo o una persona sgradevoli, al patibolo, al letto di morte. Del resto questa stessa fine di ogni partenza o arrivo, questo termine invalicabile di tutte le venute è stato sovvertito da Colui che era fin da principio e che, passato per le fauci orribili della morte le ha scardinate (Sansone). Abolito il potere della morte rimane l’amore. “Forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione” (Ct 8,6). E nell’amore il verbo venire esprime orghé: passione, pienezza, congiungimento, appagamento e nuovo fremito, nuova attesa di un nuovo incontro. Nell’amore, a Colui che è venuto e viene, l’amante continua a ripetere “Vieni”. Maranathà….
Maranathà: “Vieni, Signore!”, ma anche” il Signore viene!”. Dio è Colui che era, che è e che viene. Il suo venire, tuttavia, non è azione autonoma nella sua onnipotenza, quanto relazione dialogica d’amore. Esiste un resto in Israele che invoca Dio con le parole e il cuore del profeta che ascoltiamo ancora in Avvento: “Signore, piega il tuo cielo e scendi, tocca i monti ed essi fumeranno!” (Sal 144,5). Dio ha lasciato in noi, dice Meluzzi, una lacuna, una concavità che attende di essere riempita, un vuoto che si fa utero caldo di attesa e di Sì in Maria di Nazareth.
L’autore coglie la dialettica dell’incarnazione e della teificazione dell’uomo nell’economia sacramentale della Pentecoste, evento ultimo della storia della salvezza fino al ritorno del Signore nella Parusia.
Dio è venuto in Cristo, ma il mistero non è tutto rivelato. “Il mistero infatti si rivela, ma poi si nasconde nuovamente. Se il mistero si rivelasse completamente , ci ucciderebbe” (p. 103). A causa dell’incarnazione il mistero si vela nell’esperienza storica di ogni uomo. Dopo la nascita e la morte di Gesù di Nazareth la nascita e la morte di ogni uomo partecipano dello stupore dei pastori a Betlemme e del centurione che fa la sua professione di fede dinanzi al rabbi morto in croce: “Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio” (Mc 15,39). Da un lato, dunque, Cristo continua a soffrire – come disse con chiarezza a Saulo sulla via di Damasco – in ogni uomo perseguitato e dolente, dall’altro l’umanità si trova in una condizione “superiore” a quella degli angeli. Secondo un’antica tradizione, citata dall’autore, il buon ladrone smonta la guardia del cherubino con la spada fiammeggiante rimasto dinanzi all’Eden per impedirne l’accesso ai figli di Adamo. Egli può entrare, come tutti noi, perché è testimone della salvezza. Il grido di Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46) si è fatto compagnia tra l’uomo e Dio nelle parole scambiate da una croce all’altra, si è fatto manifesta presenza trinitaria nella Risurrezione del Cristo. Dio è venuto: “Marana tha”, Dio viene per ogni uomo abbandonato sulla croce, L’invocazione ha un senso profondo di speranza certa: “Maranathà”, Vieni Signore. “Sì, verrò presto”.
LA STRUTTURA
Tra un Dio che viene continuamente e un uomo che si sente stimolato ad andargli incontro, che più lo sente vicino, più lo invoca con passione e desiderio, il libro si pone come la descrizione di un’esperienza, di un incontro d’amore e, ancora, come appassionata esortazione a incontrare e lasciarsi incontrare da un Dio che desidera ardentemente la tenerezza della sua creatura.
Sarebbe fare torto all’autore corredarlo di una glossa scolastica, né sarebbe possibile per me che parlo, che con Meluzzi condivido l’empito della voluntas e della passio, nonché il ritmo non omologabile del linguaggio poetico e simbolico. Il libro rappresenta una sinfonia nell’intera opera dell’autore che si muove tra il compiuto e l’incompiuto. Compiuto è l’incontro fondamentale tra Alessandro e Dio, potente – s’intuisce – come l’epico scontro di Giacobbe con Dio sul guado dello Yabbok a Penuel; debole, come il femore dello stesso Giacobbe, colpito dall’Angelo di Jahvé sul fare del mattino (Gn 32, 23-33). Incompiuto è il cammino che da quel guado Meluzzi ha intrapreso con Dio: non solo perché il cammino non è ancora finito quanto al tempo e allo spazio, ma anche perché non è determinato quanto agli incontri. Risulta evidente da ogni pagina dell’opera che in ogni volto che Meluzzi incontra, come medico e psicoterapeuta, come scrittore – che indovina e sente nella pancia i volti dei suoi lettori che non vedrà mai - , come diacono e predicatore del Vangelo, come semplice uomo e cristiano, egli riesce a scorgere il volto del Cristo, che si rivela e si vela ancora: revelatus et absconditus.
Il salmo dice “alle spalle e di fronte mi circondi” (Sal 139,5). Così Meluzzi incontra il Cristo nella memoria e nelle radici. Il mito e la festa chiedono di divenire racconto e condivisione, di trasformarsi in Logos e ancora in esperienza rinnovata del sacro (Cap. I).
L’incontro parte dal movimento. Il movimento diventa viaggio. Dio non è un motore immobile delle azioni degli uomini, ma un Dio che incontra e muove all’incontro. I cristiani erano chiamati all’inizio “uomini della strada”, perché è sulle vie dell’Esodo che si viene liberati, tramutando un tempo di passiva e ripetitiva, meccanica azione nel tempo dell’attesa, il Kairós che, in una dimensione di speranza e di dono di sé attende Colui che viene e lo riconosce nell’incontro (Capp. II e III).
La croce si manifesta come la chiave di lettura dell’intero percorso umano proprio perché Dio vi si è chinato nel suo Figlio. La croce è il dolore che si fa speranza, la morte che si fa vita, la paura che diviene celebrazione di festa e d’amore. Nella croce vissuta nel quotidiano l’uomo si “riconcilia con la sua ombra” (Jung). Nulla può più terrorizzare chi è passato per le tenebre delle tre del pomeriggio. Dopo c’è solo la luce di Dio che s’irradia nelle croci quotidiane degli uomini, che ci esorta a vivere nella volontà di incontrare, condividere, sollevare. Dio continua a operare in noi come nel suo Figlio Gesù. Egli vive in noi nella presenza dello Spirito (Cap. 4).
Maria ci mostra come la femminilità sia generare e custodire la vita. La croce infissa nel suo cuore è divenuta nuova primavera di vita. Ai suoi piedi la “Théotókos” è divenuta anche Madre dell’uomo. Ella è rivelatrice d’un Dio amante dell’uomo, che si fa bisognoso dell’amore umano e, per ottenerlo davvero, lascia l’uomo libero, perché solo nella libera donazione c’è amore. E mentre gli dei pagani posseggono donne senza chiedere, il vero Dio “si china umilmente verso l’uomo per amarlo e per realizzare il mistero del divino – umano attraverso il corpo di una donna” (p. 93) (Cap. 5).
Nella seconda parte, capitoli da 7 a 10, il kairós personale di Meluzzi diventa diakonìa al mondo. Il bene comune può e deve essere servito e compiuto con una “erotica del dovere”. Fare il bene, non nelle teoresi di sistemi perfetti (quante volte sfociate in sistemi opprimenti l’uomo), ma nel tempo concreto di ogni comunità significa provare il piacere della vita vera. E’ vero che la bellezza salverà il mondo (Dostoevskji). La bellezza viene non solo dal volto del Cristo donatoci dalla grande arte, dalle icone dell’Oriente, da Antonello da Messina, da Raffaello e dal Caravaggio …. ma dal volto dell’uomo o della donna ferito dalla vita che chi è animato dalla “volontà della bellezza”, cioè dalla volontà di vivere in pienezza, incontra. Nella Cristoterapia non c’è un guaritore sano e potente che guarda dall’alto l’uomo ferito, ma un ferito guarito che espande al suo meglio la guarigione, un “vivo tornato dai morti” che contagia di vita il suo fratello.
Si scorge con facilità che dietro l’amore di cui parla Meluzzi, un amore che non sceglie, che decide di amare anche le persone “scomode” come chi soffre di psicopatologie, non c’è la frequentazione dei concorsi di Miss Italia, ma il suo lavoro di psicoterapeuta, la sua vita in comunità, il suo amore per le sorprese della strada.
Nella terza parte l’Autore si ritrova inevitabilmente (poiché l’amore, accettato liberamente, poi incatena sempre, costringe e … chi ama si lascia liberamente costringere) a parlare di questo Dio di cui è profondamente innamorato. E lo fa con una tensione linguistica continua dalla filosofia alla lirica. Le citazioni stese si fanno liriche. Da Antoine de Saint’Exupery e il suo “L’essenziale è invisibile agli occhi”, a Simon Weil: “L’assenza apparente di Dio in questo mondo è la realtà di Dio”. Anch’io – mi si perdoni la confessione personale – sono stato liberamente costretto a immergermi ancora in versi giovanili: “Tu, Dio – presenza, sei solo nel dolore dell’assenza”.
Alla assenza – presente di Dio fa da riscontro la presenza delle persone. Una presenza che a volte è assenza. E’ il rischio della carne, la sua chiara opacità, la sua evidente non chiarezza. Ne è complice e testimone lo stesso Cristo risorto. Il Dio nascosto che si è rivelato non è chiaramente conoscibile: Maria di Magdala lo confonde per il giardiniere. Eppure è proprio Lui. Sempre Lui è presente nella imperfezione di ogni volto umano, nella provvisorietà di ogni relazione che, se vissuta all’ombra della croce partecipa per certo della definitività dell’amore di Gesù.
LO STILE
Si coglie la fluidità dello stile narrativo che snocciola problemi e situazioni importanti per la vita umana, li intesse con citazioni del dibattito filosofico di epoche differenti, giunge a sintesi stimolanti la qualità fondamentale del cuore umano, che l’autore stesso sottolinea ripetutamente: eros, l’amore che con le sue fiamme di fuoco sa trascendere in afflati di terra l’imperfezione della vita umana e del creato con gesti che, pur limitati, richiamano la perfezione del cielo, che si è fatta limite nell’umanità del Cristo per ricapitolare in gioia senza fine ogni dolore, ogni iniquità, la stessa croce. Il ritmo è davvero incalzante, molto simile all’oratoria fascinosa dell’autore, saturo dello stesso entusiasmo. E’ pressoché impossibile, qualunque sia la pagina che si apre, non sentirsi sempre e comunque al centro del mistero della vita.
IMPERFEZIONE – PERFEZIONE
Perfezione personale: Dio …. Onnipotente, Infinito, Eterno …. Dio si è fatto debole, in Gerusalemme, sotto Ponzio Pilato, in un tempo determinato.
Perfezione logica, intellettuale …. Non esiste. Perché se il Perfetto si è fatto limite per incontrare l’uomo, che è finito per sua natura, perché il finito dovrebbe offendere il suo amante del cielo e pretendere di rendere PERFETTE, INCONTESTABILI, le sue povere deduzioni provvisorie, che tra cinquanta o cent’anni saranno superate, dimenticate, derise?
Le logiche esatte, le logiche che misurano la res extensa non possono arrogarsi il diritto di entrare nel regno dell’illogico amore. Un teorema si conclude con C. V. D., l’amore non si conclude mai, perché non ha conclusione, perché è sempre aperto allo stupore e alla novità. E’ per questo che Maria di Magdala non riconosce l’amato Gesù e lo scambia per il giardiniere. Perché i volti dell’amore sono mille.
Ciò che resta pertanto è l’incontro. L’incontro tra una creatura imperfetta così amata che il Dio Perfetto si è kenotizzato nell’incarnazione per poterle raccontare e dimostrare il suo amore nell’imperfezione. Il Dio perfetto, che viveva l’amore ineffabile di luce in luce tra il Padre e il Figlio nello Spirito si è fatto “erotico” per lasciarsi abbracciare, gustare, mangiare e bere dalla sua creatura amata. Il Dio che si bea nei suoi slanci di amore trinitario si è fatto balzo appassionato, pericoresi di amore verso l’uomo. E l’uomo dice: “Maranatà”, vieni Signore. E Dio Dice “Marà ishì”, vieni uomo mio, creatura mia.
Alla fine resta l’incontro e la ricerca, l’attesa e lo slancio dell’abbraccio. Alla fine resta la sposa del cantico: “Attirami dietro a te, corriamo” (Ct 1,4). E l’incontro dell’uomo col volto di Dio diventa incontro dell’uomo con ogni uomo e donna che è sacramento nel suo volto del volto di Dio. “Filippo chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9), “Saulo, io sono Gesù che tu perseguiti” (At 9, 5). Incontrare Dio nel silenzio. Incontrare Dio nella voce di ogni uomo, nel dolore della mente, del corpo, dell’anima. Nella guarigione che passa tra samaritano e vittima della vita: feriti entrambi, guariti entrambi, curati entrambi dall’amore, nella meravigliosa, imprevedibile e indefinibile imperfezione della vita, che oltre ogni logica pretenziosamente tendente all’autodefinizione ci rilancia ancora nel viaggio, per le strade della storia: finché egli venga. Sì, verrò presto, dice il Signore. Amen. Vieni, Signore Gesù: Maranathà!
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(Fonte: PRESENTAZIONE LIBRO ALESSANDRO MELUZZI) |