RACCONTO LA STORIA
ANNUNCIARE IL CRISTO: TRA L'OMELIA E LA STRADA |
Di Antonio Belpiede (frate Fuoco) OFM Cap San Leo, 28 maggio 2010
PREMESSA La spiritualità cristiana non si struttura su un’etica di autoperfezionamento, né su una ricerca, solitaria o in una élite d’iniziati, di una “gnosi”. Essa è l’incontro con la persona del Cristo e con la sua sposa, la Chiesa. Dopo l’Ascensione al cielo di Gesù, è possibile incontrarlo solo nello Spirito Santo. L’incontro con lui trasforma in fonte di bruciante energia, bellezza e missione l’inutile roveto e ne fa il segno rivelatore dell’affettuosa e appassionata presenza di Dio accanto al suo popolo: l’umanità intera chiamata alla salvezza (cf. Es 3,14). L’incontro col Cristo accade nella libertà dello Spirito, che come il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove venga, né dove vada (Gv 3,8). Accade altresì nella libertà dell’uomo. Chi si fida di Lui si apre alla fede. Il primo sì diviene porta di una relazione profonda che chiede altri sì. Lo Spirito di Dio è non solo libertà assoluta, ma anche fedeltà. La fedeltà di Dio all’uomo si manifesta nella sua costante presenza nei luoghi dove ha promesso di essere. Nella liturgia Cristo, mediatore tra Dio e gli uomini, è presente sempre. La mediocrità del ministro e della comunità ecclesiale, a volte l’indegnità non costituiscono ostacolo alla fedeltà di Dio, che la teologia classica esprimeva nel concetto di “opus operatum”. Così Cristo è presente, per la potenza efficace del Consolatore, lo Spirito Santo, nella Liturgia della Chiesa. E’ presente nel ministro e nel suo popolo, nei sacramenti, nella sua Parola proclamata e spiegata (cf. SC, 7). La Chiesa è invitata ad uscire dall’incontro col Cristo rinnovata. Maria di Magdala, prima testimone del Risorto, ne è icona straordinaria. Già liberata e guarita dall’incontro con Gesù, presente col cuore trafitto accanto alla Vergine Madre sotto la croce, si sveglia dal dolore e dal lutto nell’ascoltare il suo nome pronunciato dal Signore risorto. La prima parola di vita nuova che la donna pronuncia nel giardino il giorno dopo il sabato è “Rabbunì”, “maestro mio”. In quella parola sapida e amorosa è contenuto il suo futuro di testimone. Maria va dai fratelli, dagli apostoli ed urla, oltre l’affanno della corsa: “Ho visto il Signore” (Gv 20, 11-18). Quella donna appassionata, da cui Gesù aveva tratto fuori sette demoni (Mc 16,9), è divenuta la vergine dell’annuncio, purificata e trasfigurata non solo dall’incontro col Rabbì di Nazaret, ma ancora dal bagno di sangue ed acqua ricevuti sotto la croce da quel costato squarciato e dall’incontro col volto luminoso del Signore che regna nei secoli. Maria di Magdala è la prima imitatrice della Vergine fanciulla che, appena fecondata dallo Spirito di Dio, esce dall’intimità di quella nuvola trinitaria che l’ha adombrata per correre a servire la cugina Elisabetta, per annunciarle che in lei l’Altissimo ha operato grandi cose, che la promessa fatta ad Abramo si realizza. Maria Vergine è tipo e modello della Chiesa. Fecondata dallo Spirito corre a generare il Cristo per le strade del mondo. Noi, che non siamo nati “immacolati”, siamo tuttavia predestinati ad esserlo (cf. Ef 1,4 ). Noi, così simili, al di là delle finzioni farisaiche, alla Maddalena, siamo invitati da Gesù a stare come lei vicini alla Madre, sotto la croce e nel cenacolo della Pentecoste, per correre a dire la mondo: “Ho visto il Signore”. Se nell’annuncio della Parola nell’assemblea liturgica Cristo avvince in un amplesso sempre nuovo la sua sposa, è sulle strade del mondo ch’essa compie la sua missione. I veri mistici sono sempre stati missionari. La pétite Thèrese de Lisieux, che ha consumato la sua veloce vita di amore tra le quattro mura del Carmelo, percorre di icone e magistero le vie dell’Africa come patrona delle missioni. Chiunque ha davvero incontrato Cristo nel suo Spirito non può fare a meno di annunciarlo. La missione è la prova del nove della spiritualità cristiana, la testimonianza appassionata certifica la verità dell’incontro col Signore. Dopo una disamina dell’omelia come momento fondamentale in cui la Parola nutre il popolo di Dio nell’assemblea eucaristica e lo spinge alla missione, proverò a narrare l’esperienza d’incontro e d’annuncio che si colloca nella Chiesa dentro quella famiglia di sedotti dal Vangelo che sono Francesco d’Assisi ed i suoi fratelli, con uno sguardo ad Antonio di Padova. Esperienza che può essere ancora di utilità straordinaria ai giorni nostri.
L’OMELIA: INCONTRO E ANNUNCIO NELLO SPIRITO SANTO
“Chiesa, che cosa dici di te stessa?”, fu la frase chiave del discorso del nuovo Papa, Paolo VI, che segnò il cambiamento degli schemi alla riapertura del Concilio Vaticano II, il 29 settembre 1963[1]. Tra le grandi intuizioni di questo straordinario Papa ci fu quella del bisogno della Chiesa di evangelizzarsi continuamente. Per porsi in dialogo “col mondo” (è il tema di fondo della Costituzione Conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et Spes) la Chiesa aveva bisogno di uscire da una sensibilità pedagogica unilaterale “ottocentesca”. A dieci anni dalla chiusura del Concilio, dopo la terza Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi nel 1974, l’otto dicembre 1975, solennità dell’Immacolata, il grande Papa donava l’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, che ha ancora il tono e la solennità di un documento di sintesi del Concilio. Dice Paolo VI: “La Chiesa ha sempre bisogno di evangelizzare se stessa, se vuole conservare freschezza, slancio e forza per annunciare l’Evangelo” (EN, 15). Le traduzioni in lingue volgari del titolo del documento non rendono il senso di dovere che le “d” della costruzione perifrastica passiva latina esprimono energicamente. Le versioni italiane titolano in genere “L’evangelizzazione nel mondo contemporaneo”. Il latino Evangelii nuntiandi esprime invece il dovere ineludibile di cui parlava l’apostolo Paolo: “Non è per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo” (1 Co 9,16). E Paolo VI aggiunge: “La presentazione del messaggio evangelico non è per la Chiesa un contributo facoltativo: è il dovere che le incombe per il mandato del Signore Gesù, affinché gli uomini possano credere ed essere salvati” (EN, 5). Come Maria di Magdala, la Chiesa è inviata ad annunciare Colui che ha incontrato. L’incontro non accade una volta per tutte. Il libro degli Atti degli Apostoli presenta più volte la effusione dello Spirito Santo. La Pentecoste non è un evento terminato, come la nascita a Betlemme di Gesù o la sua crocifissione. Nel cap. 4 di Atti c’è una seconda Pentecoste, in casa del centurione Cornelio (cap. 10) lo Spirito scende ancora. Si contempla nella vita della Chiesa delle origini la realizzazione della parola profetica del Battista nel vangelo di Giovanni: “Colui che il Padre ha mandato proferisce le parole di Dio e dona lo Spirito senza misura” (Gv 3,34). Come è inesausto l’amplesso d’amore tra lo sposo e la sposa, così si prolunga nel tempo l’esperienza nuziale della Chiesa. La familiarità col Signore si rinfresca di preghiera quotidiana, si corrobora potentemente col ritmo settimanale dell’ottavo giorno. Nella celebrazione dell’eucaristia festiva si prolunga il sacrificio della croce, si rinnova nel mistero dei simboli l’incontro col Signore Risorto. La comunità è toccata dal Cristo che la chiama per nome come la Maddalena, lo riconosce e loda come Rabbì e Signore, si nutre delle sue carni immacolate, viene inviata al mondo per annunciare e donare la sua vita pasquale. L’eucaristia domenicale costituisce il punto più certo ed ecclesiale dell’incontro col Cristo nello Spirito. Il culto “in Spirito e verità” è unico, formato da due parti: Liturgia della Parola e Liturgia eucaristica (Institutio generalis Missalis Romani, - da ora IGMR – n. 8). La Parola di Dio, valida e intelligibile dagli uomini di ogni cultura e di ogni tempo, vede la “sua efficacia accresciuta da un’esposizione viva e attuale, cioè dall’omelia, che è considerata parte dell’azione liturgica” (IGMR n. 9). Nella sua strutturazione gerarchica, che si fonda sull’interazione armonica del sacramento dell’Ordine sacro col sacramento del Battesimo nella dialettica ecclesiale e celebrativa, la comunità dei credenti vive la diversità dei carismi e dei ministeri. Il ministro che predica, il vescovo, il presbitero o, talvolta, il diacono è chiamato a rinnovare l’esperienza di Gesù nella sinagoga di Nazaret. Il rotolo del profeta Isaia, con le parole mirabili sul Messia: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me. Egli mi ha consacrato con l’unzione per annunciare l’evangelo ai poveri” (Lc 4,18), prende carne nella bocca, nel volto, nel corpo di Gesù. Gesù dice, chiudendo il rotolo, mentre gli occhi dell’assemblea dei devoti ebrei sono incollati al suo volto, “Oggi si è adempiuta questa Scrittura” (Lc 4,21). Cristo è il Signore del tempo, il kairós personale che lascia incontrare il Padre nella potenza dello Spirito d’amore. Dopo la sua Ascensione, nell’economia della Pentecoste, quell’OGGI si realizza in ogni apostolo che annuncia, in ogni testimone, in ogni donna o uomo cristiani che nel nome di Gesù servono il mondo. Nell’omelia lo Spirito scende sul ministro e vuole possederlo, adombrarlo in maniera analoga a come fece con la Vergine quel giorno. Dal Sì schietto e totale di Maria discese la salvezza del mondo. Al ministro è richiesto un Sì altrettanto deciso per essere lieto e potente strumento nell’attualizzazione storica della Parola di Dio. Un sì che non si consuma in un attimo, che va preparato con lo studio previo e la preghiera, con la vicinanza alla comunità per sussumere nel cuore i suoi problemi, con l’apertura del cuore alle ansie e alle speranze di tutti gli uomini, alla storia. Pur non essendo l’unico ambito della funzione d’insegnamento della Chiesa, l’omelia ne costituisce tuttavia una forma paradigmatica. Proprio perché collocata all’interno dell’eucaristia essa esprime e realizza la triplice funzione di Cristo, profeta, sacerdote e re. Nel ministero del presidente della celebrazione, che è il vescovo o un presbitero in comunione con lui, si vede la rivelazione della Parola fluire sul pane e sul vino che diventano il corpo e sangue del Signore e, ancora, uscire dal tempio nel corpo vivo delle membra del Signore: i cristiani inviati in Missione [2]. La comunità tutta, in breve, è nutrita dall’incontro col Cristo – Verbo incarnato nei simboli eucaristici ed è messa in grado di ripartire come la Maddalena, gridando: “Ho visto il Signore!”. Quanto questo quadro ideale sia lontano da certe celebrazioni affrettate o grigie di mestizia, da certe omelie raffazzonate o insipide, dalle invisibili chiusure e apatie di cuori di sacerdoti, come di quelli degli altri fedeli, risulta probabilmente nell’esperienza di tutti noi. E’ per questo limite, talvolta per questo peccato di frigidità nei confronti del suo sposo, che la Chiesa deve evangelizzare se stessa mentre evangelizza il mondo. Dalla qualità dell’incontro dipende la qualità dell’annuncio. L’incontro con lo Spirito di Dio non ci chiude a contemplare la nostra “gravidanza”, ma ci spinge come Maria verso Ain – Karim, come gli apostoli fino agli estremi confini della terra.
FRANCESCO: IL VANGELO RIFORMA DELLA CHIESA
Nel 1209 un penitente di Assisi, il figlio di un ricco mercante che aveva lasciato le ricchezze e i sogni di gloria cavallereschi per seguire Gesù povero e crocifisso, avendo ricevuto da Dio il dono inaspettato di “fratelli” che vogliono percorrere la sua stessa strada, riceve da Innocenzo III l’approvazione di una regola di vita. In Francesco il mondo assiste ad un “ritorno al Vangelo”. Le inquietudini della società europea in febbrile e luminosa costruzione, dopo le oscurità millenariste, trovano nei Frati Minori la freschezza di una nuova epoca apostolica, un rinnovato, semplice e solare annuncio del nome di Gesù, unico Signore. La Chiesa si trovava allora in un tempo di grande rinnovamento, la cosiddetta “Riforma gregoriana”[3]. La riforma confluì col pontificato di Lotario dei Conti di Segni, Innocenzo III, nel Concilio Lateranense IV da lui convocato nel 1215. L’Assise ecumenica vide l’intervento di 1200 prelati e la presenza dei rappresentanti di quasi tutti i principi cristiani[4]. L’obiettivo dichiarato da papa Innocenzo nel sermone di apertura “Desiderio desideravi” era la “Reformatio ecclesiae et liberatio Terrae Sanctae”[5]. Oltre a sancire il dovere della confessione annuale e della comunione pasquale (can 21), l’assise intervenne in materia di evangelizzazione. Il tema De pradicatoribus instituendis viene trattato nella costituzione n. 10. La tradizione consolidata affidava ai soli vescovi, come successori degli apostoli, l’ufficio della predicazione. Il Concilio statuisce per il bene del popolo cristiano e per la necessità di contrastare le perniciose eresie che pullulano in Europa che i vescovi assumano “viri idonei” per l’ufficio della predicazione e per amministrare il sacramento della penitenza come confessori nelle chiese cattedrali e conventuali[6]. Le necessità della Chiesa si coniugano perfettamente con quanto lo Spirito Santo ha suscitato in Francesco d’Assisi e in Domenico di Guzman, fondatore dell’Ordine dei Predicatori. Già nella prima approvazione della Regola nel 1209 Innocenzo aveva detto: “Ecco, questi è colui che con l’azione e la parola sosterrà la Chiesa di Cristo”[7] Fino a quel momento non solo la predicazione era riservata ai vescovi, ma era confinata nella celebrazione liturgica. Coi francescani e domenicani la Parola di Dio viene liberata dalle “catene” di un certo manierismo liturgico e va incontro alla gente, nelle periferie urbane che crescono, da Londra e Canterbury, a Parigi e Milano, a Roma, Firenze, Assisi e nelle mille città dell’Europa che cresce. Il libro degli Atti degli Apostoli colpisce per il suo dinamismo. La comunità dei credenti è rapida, agile nello Spirito ricevuto. Il diacono Filippo è rapito dallo Spirito (At 8,39) e condotto qua e là per evangelizzare e battezzare. Francesco è toccato dal testo della missione di Matteo (10, 1-15), intende vivere coi suoi frati il comando del Signore “Andate dunque e fate discepole tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28, 19-20). Appena si ritrova con sette compagni compie un gesto che rivela la sua sensibilità per la diffusione del Vangelo. Li infiamma parlando loro del Regno di Dio, poi divide la fraternità in quattro gruppi di due e dice: “Andate, carissimi, a due a due per le varie parti del mondo e annunciate agli uomini la pace e la penitenza in remissione dei peccati” (FF 366). I Mendicanti colpiscono per la loro semplicità e austerità, chiedono a volte un tozzo di pane alla gente, ma donano la Parola di Dio. Francesco personalmente diviene paradigma dello stile di evangelizzazione dei suoi frati. Egli alterna periodi di contemplazione in luoghi romiti alla predicazione. Allo stesso modo i suoi frati “durante il giorno entrano nelle città e nei paesi, dandosi da fare con l’azione per guadagnare altri al Signore; la notte poi ritornano all’eremo o in luoghi solitari per attendere alla contemplazione” (G. da Vitry: FF 2206). E’ dal roveto ardente che parte la missione di liberazione del popolo, dall’incontro col Risorto che sgorga l’urlo della Maddalena: “Il Signore della vita era morto, ma ora vivo trionfa”. I Frati Minori si fanno interpreti di una predicazione appassionata che gronda di esperienza del Cristo vivente. I sermoni sono in lingua volgare. Francesco raccomanda che siano brevi e illustrino l’essenza della vita in Cristo, esortando alla vita nuova che deriva dall’incontro con Lui.
UN LINGUAGGIO NUOVO
L’esperienza del Cristo in Francesco s’innesta su una sensibilità poetica e artistica straordinaria. Francesco incontra il Cristo non solo nella sua Parola, di cui si nutre continuamente, e nell’eucaristia, ma anche nei segni semplici del creato. La sua riconciliazione è totale. Nell’unica paternità di Dio scopre fratelli e sorelle tutte le creature. Il linguaggio della sua testimonianza è cosmico e poetico ma a un tempo s’incarna nelle situazioni quotidiane, porta la pace tra le fazioni, tocca i cuori. La strada e la piazza sono l’areopago di Francesco e dei suoi frati. Un testimone non francescano, Tommaso da Spalato, arcidiacono e poi vescovo della stessa città, si trova nel 1222 nella Piazza del Comune di Bologna dove Francesco predica a una gran folla. Egli rimane affascinato ed esprime efficacemente la novitas dello stile e del linguaggio di Francesco. «Questo era l’esordio del suo sermone: “Gli angeli, gli uomini, i demoni”. Parlò così bene e chiaramente di queste tre specie di spiriti razionali, che molte persone dotte, ivi presenti, rimasero non poco ammirate per quel discorso di un uomo illetterato. Eppure egli non aveva lo stile di un predicatore, ma piuttosto quasi di un concionatore. In realtà tutta la sostanza delle sue parole mirava a spegnere le inimicizie e a gettare le fondamenta di nuovi patti di pace». (FF 2252) Francesco parla come un “concionator”, un oratore laico, un politico o un avvocato, con un linguaggio che affascina e tocca i cuori, aprendoli al Cristo. Siamo ben lontani da un sermone di maniera pronunciato in chiesa. Con Francesco il lieto annuncio abita le piazze e le strade dell’Europa che nasce. Francesco è altresì un uomo con un istinto straordinario per la comunicazione, che lo Spirito eleva e perfeziona. Non solo egli usa la parola, ma tutti gli strumenti che possano, attraverso i sensi, penetrare il cuore dell’uomo. Il principio dell’incarnazione si fa in lui continua esperienza e ricerca di linguaggi incarnati. Il presepe di Greccio ne costituisce l’esempio più celebre (T. Da Celano: FF 468 - 471). Giovanni nella sua prima lettera afferma: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita … ”(1 Gv 1,1). L’esperienza dei sensi dell’apostolo che ascoltano, vedono, contemplano, toccano il Verbo, Cristo Gesù, viene da Francesco offerta attraverso tutti i mezzi a disposizione: la sacra rappresentazione, le lodi spontanee, la musica, la poesia, gesti simbolici. L’amore alla umanità del Cristo, che fuga ogni possibile spiritualismo neoplatonico, la devozione alla Madre sua fanno sì che la missione di Francesco porti un vento nuovo nell’arte e nella cultura italiana ed europea. Come ha detto in questa regione il mio fratello Prospero Rivi, nel genio di fede di Francesco contempliamo una santità nuova ispiratrice di un’arte nuova[8] . Francesco viene dall’esperienza dell’incontro col Dio vivente, conosciuto nel lebbroso e nella rivelazione di san Damiano. E il Cristo è da lui offerto a chiunque, riconosciuto come fratello o sorella, con semplicità, come contemporaneo e intimo di ognuno. La predicazione ne viene rinnovata, l’amore per Cristo, letto nella triade culla – croce – altare, si esprime nella Lauda. Il pianto della Vergine di Jacopone e il Cantico di frate sole dello stesso Francesco divengono fonti ispiratrici dell’arte nuova. La natura, che l’eresia catara dualista viveva in maniera cupa e negativa, è contemplata nella solarità della creazione, legata all’uomo da vincoli di fraternità sotto la mano benevola dell’unico Creatore. Queste note profumate del carisma del fondatore contageranno i suoi frati, arricchendosi delle loro tipicità individuali. La missione della fraternitas francescana investe il pensiero europeo con Jean De La Rochelle (autore del primo trattato di estetica della grande Scolastica), con Alessandro di Hales e Bonaventura. La predicazione dei frati Minori contamina di vita nuova la poesia e la letteratura, la pittura e la musica[9] Partito da un’esperienza intima e solitaria di comunione col Cristo povero e crocifisso, Francesco comprende che il Signore gli ha dato dei fratelli per essere una fraternità apostolica. Seguendo lo stile dei vangeli vanno a due a due e, soggiunge Francesco nel Testamento: «Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto: “Il Signore ti dia la pace”» (FF 121). Con la crescita esponenziale dell’Ordine, sensibile ai richiami del Romano Pontefice che intende riformare la Chiesa con la predicazione e i sacramenti, Francesco, che non si è mai preoccupato di “sapere di lettere”, si sintonizza coi bisogni della Chiesa. Se questa chiede che l’idoneità dei predicatori passi attraverso un esame, Francesco comprende che è giunto il tempo di preparare i frati con uno studio serio. Il biglietto a frate Antonio indica la comprensione delle esigenze dei tempi e il desiderio forte di restare ancorati alle origini carismatiche: il Cristo può essere annunciato solo se conosciuto nella preghiera e nell’incontro personale e comunitario. La teologia deve nutrire quest’incontro, tematizzare e irrobustire le intuizioni portate dal soffio dello Spirito, non può sostituirlo, o si trasformerebbe in sterile accademia: “A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché in questa occupazione tu non estingua lo spirito della sacra orazione e della devozione, come sta scritto nella Regola” (FF 251-252). I frati, adeguatamente preparati, saranno esaminati e approvati per la predicazione dal ministro generale della fraternità (Regola Bollata IX: FF 98). I Frati Minori, con l’approvazione della Regola con bolla pontificia da Papa Onorio III, acquisiscono un mandato per la Chiesa universale. La dialettica Chiesa locale – Chiesa universale li vede propendere per un dinamismo apostolico che li spinge in pochi anni a coprire tutta l’Europa. Pur tuttavia Francesco esige dai suoi frati l’obbedienza ai vescovi. La Regola bollata lo afferma chiaramente: “Non predichino nella diocesi di alcun vescovo, quando da lui sia stato loro proibito” (Cap. IX: FF 98)[10]. San Bonaventura aggiunge che Innocenzo terzo aveva conferito il mandato di predicare la penitenza anche ai frati laici che avevano seguito Francesco. Il Papa aveva genialmente donato loro una “piccola chierica” o tonsura, perché come i chierici potessero predicare liberamente la Parola di Dio (Legenda Maior, 3,10: FF 1064). La Chiesa riconosce che il carisma di fondatore di Francesco d’Assisi ha suscitato una fraternità evangelica, che come gli apostoli è inviata dal Signore al mondo intero per annunciare il nome di Gesù.
Antonio, primo maestro di teologia dell’Ordine coniuga nei suoi Sermones il mandato ricevuto dal fondatore di “insegnare teologia ai frati” con la sua esperienza di predicatore itinerante. Con la sensibilità profetica che gli era connaturata, Francesco lo chiama “mio vescovo”. Antonio non fu mai vescovo secondo il Diritto della Chiesa, ma Francesco ne riconosce il carisma e il ministero “episcopale”. Episcopus, “chi sorveglia dall’alto”. E Antonio cura la formazione dei predicatori dell’Ordine. Antonio sorveglia il popolo di Dio, rintuzzando implacabilmente, con una predicazione fresca di vangelo, le eresie che turbano i cristiani. Nell’intensa vita apostolica del dottore evangelico si colgono i mutamenti della predicazione tra XII e XIII secolo. Fino alla metà di questo secolo la predicazione era esclusivamente una ripetizione dei Padri della Chiesa. Ora, senza omettere i Padri, si fa strada sempre più un sermone che attinge alla Parola di Dio e all’eucologia, cioè i testi liturgici, della celebrazione. Cristo, incontrato nel mistero dei segni, viene ascoltato e spiegato nel contesto del tempo. I Sermones non sono prediche precotte, ma piuttosto “una raccolta di orditure di omelie” sulle quali i frati predicatori possano innestare il proprium della loro riflessione e del loro spirito personale. In essi Antonio riversa la sua erudizione, ma anche la sua straordinaria esperienza tra il popolo. Il suo sermonale “è frutto di tale rinascita della parola nel secolo XIII, parola dotta, latina e scritta, che deriva da una parola orale, pronunciata in volgare dinanzi ai fedeli, ai quali poi ritornerà grazie all’attività dei fratres, istruiti sul testo dei Sermones”[11]. L’uomo che prepara il prezioso sussidio formativo ai futuri predicatori dell’Ordine di Francesco è il predicatore instancabile che annuncia il Vangelo a Rimini, marcia fino a Vercelli per predicare ancora, si muove in Provenza e Francia e, come a Limoges, predica nelle vaste arene antiche, essendo le chiese insufficienti ad accogliere le folle che corrono ad ascoltarlo. Dice il Thode: “Quando venivano a sapere che Antonio avrebbe predicato, già la notte precedente uomini e donne arrivavano in folla e alla luce delle torce si dirigevano verso un campo vicino a Padova dove il santo aveva l’abitudine di predicare. Si potevano vedere anche trentamila uomini riuniti laggiù.”. La predicazione nella cornice della natura, en plein air, si arricchisce delle voci del creato “suscitando nell’ascoltatore quell’appagamento che sempre scaturisce dal contatto con la natura”.[12]
Ad una prima osservazione Antonio si mostra diverso da Francesco. Tanto è dolce questi, che pure si mostra talvolta di una franchezza disarmante, quanto è sferzante la parola del dottore. Antonio è severo soprattutto nel condannare duramente i vizi del suo tempo, specie nel clero: la superbia, la simonia, la lussuria. Eppure, ad un’analisi più profonda, il messaggio del maestro teologo si mostra umilmente fedele alle indicazioni di Francesco.
In Antonio si assiste ad una modificazione della “predicazione” in “missione”[13]. L’Europa si va dinamizzando nella comunione di beni e di idee che corrono sempre più veloci da una città all’altra. Antonio ha nel cuore, ed insegna ai frati, la missione di Gesù proclamata nella sinagoga di Nazaret: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me. Egli mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato ad annunziare l’evangelo ai poveri” (Lc 4,18) Accanto al Patriarca serafico, Francesco, la sua vita diverrà modello per tutti i futuri predicatori francescani, quale “sublime esempio di universalità. Egli non è un predicatore arroccato nella sua fortezza, ma un pellegrino che annuncia il vangelo, un pellegrino in perenne mobilità”[14] .
LE STRADE DEL’EPOCA SECOLARE
Nella sua ponderosa opera sulla secolarizzazione, A secular age[15], il teologo di Montreal Charles Taylor presenta tre accezioni del termine “secolarizzazione”:
E’ questa terza l’accezione preferita da Taylor, che pure resta connessa abbastanza con la prima e parecchio con la seconda. La modernità non è vista tanto come conflitto tra una visione materialista ed una spirituale della vita, quanto come un cambiamento dell’immaginario cosmico che ha dischiuso un vasto spazio in cui le persone possono vagare tra le opzioni opposte e attorno ad esse senza decidersi chiaramente e definitivamente per una di esse. Questa terra di nessuno tra credenza e incredulità è diventata talmente ampia da presentarsi piuttosto come una zona neutrale in cui rifugiarsi per sfuggire del tutto alla scelta[17]. In questa vasta zona neutrale, in cui non c’è né una fede forte né un ateismo convinto, i linguaggi più sottili possono aiutare a ritrovare il senso[18]. Il linguaggio dell’arte, dice ancora Taylor, ha ricevuto una svolta radicale nell’ottocento. La “Grande catena dell’essere”, l’interpretazione cristiana della storia, la sacramentalità della natura, l’analogia dei vari piani della creazione, l’uomo come microcosmo fatto a immagine di Dio erano generalmente accettate fino alla fine del settecento. L’arte si sviluppò fino ad allora come mimesi di un cosmo compreso in maniera ordinata. Nell’ottocento il paradigma dell’arte passa dalla mimesi alla creazione. L’oggetto visibile dell’emozione svanisce, l’arte stessa è, in qualche modo “commossa” e commuove; la musica in particolare, ma anche la poesia o la pittura. Il riferimento ontologico resta invisibile. Le direzioni possibili sono due. Si può giungere alla conclusione che il mistero, la profondità, le fonti della commozione possono essere interamente antropologiche. D’altro canto l’aspirazione a creare nuovi linguaggi attesta l’insoddisfazione di restare nello stato di disincanto dell’uomo moderno, inserito in contesti sociali sempre più meccanizzati e, dunque, spiegabili razionalmente. Dai grandi poeti romantici, Wordsworth, Holderlin, Leopardi, a noi si coglie il tentativo di articolare nuovi significati morali in natura, di recuperare una visione di qualcosa di più profondo. Se i linguaggi teologici e metafisici del passato definivano con sicurezza l’ambito del profondo, dell’invisibile, il simbolo è componente costitutiva del “linguaggio più sottile”. E’ questo tipo di linguaggio che può rioffrire un senso all’uomo moderno nella vasta zona pedonale tra le due strade dell’impegno religioso e del materialismo[19].
Nella prospettiva di Taylor, decisamente intrigante, la secolarizzazione si presenta come un vasto spazio in cui far risuonare linguaggi sensati. L’Italia ha presentato ricorso contro la decisione della Corte Europea dei Diritti Umani che ha sentenziato la rimozione del crocifisso dalle scuole. Pure per le piazze e le strade non s’incontrano facilmente predicatori itineranti e popolari come Francesco, Antonio, Bernardino da Siena. Questi riuscirebbero a rappresentare plasticamente, sotto la volta del cielo e lo stormire leopardiano delle fronde degli alberi, il Cristo Crocifisso, Signore della Storia. Alla grande potenza degli attuali Mass Media fa riscontro un frequente trionfo di linguaggi deboli, poveri, e senza senso. Il linguaggio “più sottile”, l’arte figurativa, la poesia, la musica può essere offerto all’uomo come linguaggio “simbolico”, cioè unitivo. E l’unione è data dalla ricerca onesta del bene dell’uomo. Lasciando all’uomo, come sempre ha fatto Gesù, la libertà di aderire a Lui, uomo – Dio, unico Signore. La liturgia, culmen et fons della missione della Chiesa, si struttura di linguaggi saturi di senso: le parole della Scrittura e della Tradizione, i segni della terra, che semplificano, come direbbe Jung, il cuore dell’uomo: il fuoco della Veglia Pasquale, il canto nella notte, il pane e il vino, l’olio dell’unzione regale e l’olio farmaco che guarisce, i colori e i tessuti, la bellezza. Le strade degli uomini oggi sono più complesse che in passato. Ci sono strade per camminare e strade ferrate, strade veloci per i nostri veicoli e piste ciclabili, vie del cielo e del mare, strade virtuali intasate di parole, percorsi audiovisivi. Vi sono anche sentieri di riflessione, il cammino di Santiago e l’antica via Francigena, che rivive splendori medievali nel passo svelto dei pellegrini che dal Nord Europa giungono in Puglia, s’imbarcano per Istanbul e marciano ancora fino a Gerusalemme. Di questi percorsi fanno parte le strade dei santuari: Assisi, Padova, San Giovanni Rotondo. In quest’ultimo santuario, dove opero frequentemente, l’incontro tra un maestro gesuita, Marco Ivan Rupnik, e la spiritualità francescana, ha prodotto un’opera che Charles Taylor inserirebbe facilmente tra i linguaggi più sottili: dei mosaici che su una superficie di circa 2500 metri quadri espongono i misteri della fede cristiana, la vita di san Francesco e quella di padre Pio, la gloria di Cristo e del suo servo Pio. La gente che viene a san Giovanni si trova immersa in una Biblia Paupeurum come gli antichi e nuovi pellegrini della Basilica di Assisi di fronte ai cicli giotteschi[20]. In fondo, nel pilastro portante tutta la grande chiesa, simbolo di Cristo – pietra angolare si apre la ferita del costato di Gesù, che contiene il corpo del santo. I pellegrini potranno passare e ascoltare la Parola di Dio, guardare i mosaici, toccare la pietra e lo stesso sarcofago di padre Pio, contemplare il mistero. Passeranno anche semplici amanti dell’arte, per vedere con occhi laici quell’arte. C’è chi dice che verranno solo per motivi estetici. Non credo. Di fronte alla bellezza affiora piuttosto una certa nostalgia di senso, un intuito di profondità[21]. La ferita del costato fu il ricettacolo intimo della spiritualità di Francesco per tutta la vita. Si chiudeva nelle fenditure delle rocce, ad Assisi, a Narni, alla Verna, immaginando di essere rinchiuso nel costato di Gesù[22]. Ed è Gesù stesso che, secondo il dottore Antonio di Padova, dice di quella ferita: “Io sono la porta, se uno passa attraverso di me sarà salvo, entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,9)[23]. Entrare e uscire. Trovare pascolo. Cioè camminare nella vita in libertà e trovare il senso, il pascolo per il cuore e la mente, scegliere di iniziare il proprio viaggio, il proprio itinerario in Dio. Il senso si disvela alla Chiesa nella Liturgia, la parola e i segni si fanno nutrimento ed energia. Il senso si vela ancora per trovare nuove riformulazioni nei linguaggi degli uomini, nel linguaggio universale della bellezza. John Donne dice: “We are but rays of a unique sun!”, non siamo che raggi di un unico sole. E siamo anche note di un’unica sinfonia. Chiunque ha incontrato il Cristo non può dissimulare il cuore ardente, non può, come Maria di Magdala, non trasformarsi in canto: “Ho visto il Signore!” (Gv 20, 18). Perché le corde intime del cuore di chi ascolta possano liberamente vibrare in armonia.
CONCLUSIONE
L’orizzonte della Spiritualità è la condivisione. Non c’è missione senza contemplazione, ma non c’è vera contemplazione senza annuncio. L’esilio trinitario del Figlio eterno del Padre ci spinge a uscire dal cenacolo per annunciare nella potenza dello Spirito che Gesù è il Signore. Il suo ritorno al Padre e l’effusione dello Spirito ci esortano a rientrare nel cenacolo per una nuova eucaristia, una nuova omelia, un’altra missione.
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[1] Si veda il Cap. VI di R. Aubert in, Storia della Chiesa, (iniziata da A. Fliche e V. Martin), Vol. XXV/1, La Chiesa del vaticano II (1958 – 1978), (a cura di M. Guasco, E. Guerriero, F. Traniello), Cinisello Balsamo 1994, pp. 255 – 263. [2] La Cost. Sacrosanctum Concilium 52 fornisce una nozione di omelia che è assurta a definizione: “Sotto il nome di omelia, che va fatta su di un testo sacro, s’intende la spiegazione sia di taluni aspetti degli insegnamenti della sacra Scrittura, sia d’ogni altro testo preso dalle letture ordinarie o dalle letture proprie della Messa del giorno, tenendo conto tanto del mistero che si celebra, quanto delle particolari necessità di chi ascolta”. Il canone 767 del Codice di Diritto Canonico traduce in termini di obbligo per i pastori l’importanza dell’omelia: “§ 1. Tra le forme di predicazione è eminente l’omelia […] riservata al sacerdote o al diacono. § 2. Nei giorni di domenica e nelle feste di precetto, in tutte le Messe che si celebrano con concorso di popolo, si deve tenere l’omelia, né la si può omettere se non per grave causa”. [3] In realtà il movimento riformatore era partito da alcuni centri monastici, come Cluny, per poi essere afferrato saldamente dal papato, con Leone IX ( 1048 – 1054), Gregorio VII (1073 – 1085), Urbano II (1088 – 1099). Una bella contestualizzazione del carisma di fondatore donato a Francesco d’Assisi in questa fase storica si trova in P. Rivi, Francesco d’Assisi e il laicato del suo tempo, Villa Verucchio (RN), 2004 .La tesi dell’autore, che condividiamo, è che, in un’epoca di grande mutamento e attese del laicato in Europa, Francesco abbia saputo cogliere queste istanze, offrendo il vangelo vissuto e annunciato come risposta. Opere generali di utile consultazione sono K. Bihlmeyer – H. Tuechle, Storia della Chiesa, 2 – Il medioevo, Brescia 1973, pp. 147 - 167; M. D. Knowles – D. Obolensky, Nuova Storia della Chiesa, 2 Il Medio evo, Torino 1971, pp. 189 – 208. [4] K. Bihlmeyer – H. Tuechle, cit …, pp. 284 – 291. [5] G. Alberigo (ed.), Storia dei Concilii ecumenici, Brescia 1990, pp. 199 – 204). [6] G. Cardaropoli, Predicazione, in Dizionario Antoniano (a cura di Ernesto Caroli), Padova 2002, 615 – 634. [7] T. Da Celano, Vita seconda 11, 17, in Fonti Francescane, (a cura di Ernesto Caroli), Padova 2004, FF 603. D’ora in poi citate solo FF col nome dell’autore e il numero marginale progressivo. [8] P. Rivi, Francesco e il genio della fede: una santità nuova ispiratrice di un’arte nuova, Conferenza all’Associazione Scrittori Reggiani, Reggio Emilia 19.XII.2009, pro manuscripto. [9] H. Thode, Francesco d’Assisi e le origini dell’arte del Rinascimento in Italia [Franz von Assisi und die Anfange der Kunst del Rennaissance in Italien, Berlin 1885] solo nel 1993 tradotto in Italia, (Luciano Bollosi ed.), Donzelli, Roma, 1993. Si veda in particolare il cap. V. I Francescani, pp. 305 - 356 .
[10] G. Concetti, Predicazione, in AA. VV., Dizionario Francescano, Padova 1983, 1413 – 1430. [11] R. Zavalloni, Antonio di Padova, educatore pastorale, Santa Maria degli Angeli – Assisi, 1995, pp. 269 – 270. [12] H. Thode, cit., pp. 235 – 236. [13] A. Balestrero, La missione del predicatore evangelico nei “Sermones” di sant’Antonio, in Il Santo 22 (1982) 19 – 25. [14] R. Zavalloni, cit., p. 280. [15] C. Taylor, A secular age, Cambridge, Massachusets – London, England, 2007; Edizione italiana: L’età secolare, Milano, 2009. [16] C. Taylor, cit., pp. 14 – 17. [17] Idem, pp. 443 – 444. [18] L’espressione “subtler language” (linguaggio più sottile) è attribuita da Taylor al poeta inglese Percy Bysshe Shelley ed è stata diffusa da Earl Wassermann. E. Wassermann, The Subtler Language, Baltimore, 1968. [19] C. Taylor, cit., pp. 443 – 456. [20] Il 21 giugno 2009 abbiamo contemplato lo stupore estatico sul volto dolce di Benedetto XVI, in visita al santuario. Eravamo lì quando egli ha detto al maestro Rupnik: “Si tratta non solo di un’opera d’arte di straordinaria bellezza, ma rappresenta pure una lezione di teologia magistrale”. Nulla può sostituire l’immersione in 2500 metri quadri di arte sublime, tuttavia può consultarsi con gusto M. I. Rupnik, Il cammino dell’uomo nuovo, con san Francesco e san Pio da Pietrelcina, Roma – San Giovanni Rotondo 2009, corredato di belle foto dell’opera. [21] C. Taylor, cit., pp. 455 – 456. [22] Un testo bellissimo, che evidenzia questa straordinaria tenerezza di Francesco si trova in FF 2252. [23] Sant’Antonio di Padova, I Sermoni, trad. di Giordano Tollardo, Padova, 2005, p. 1180.
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