LIBRI
LA FERITA DEL COSTATO |
VISIONE E LINGUAGGIO PER RIEVANGELIZZARE L’OCCIDENTE
Di Antonio Belpiede, OFM Cap
“Irriga, o Padre buono, i deserti dell’anima Coi fiumi d’acqua viva che sgorgano dal Cristo”. (Liturgia delle Ore)
“Regarde où nous risquons d’aller Tournant le dos A la cité De ta souffrance! Ta Pâque est lente aux yeux de chair De tes bourreaux : Explique-nous le livre ouvert A coups de lance !”. (D. Rimaud, Liturgie des heures)
“Aprimi la ferita del costato Che fu porta diletta di Francesco”. A.B.
VISIONE
Questa visione comincia alle 5.45 di un giorno feriale della Quaresima 2012, nella cappella del convento di Bouar. I frati sono in silenzio per la meditazione. Il cielo d’Africa scolora, il crocifisso di San Damiano sul muro si tinge di sfumature, il giorno arriva.
L’icona giovannea del Cristo crocifisso, morto e in piedi, che il simbolo dell’Agnello, sgozzato e ritto, conferma nell’Apocalisse (5,6-14)[1], fluì fin dai primi secoli in produzione artistica. Il Cristo di San Damiano appartiene a questa diffusa scuola[2]. Il Cristo è eretto, non abbandonato al peso del corpo sofferente nelle contrazioni che precedono la morte, il capo e il collo sono dritti, come in un uomo vivo e sano. Il costato aperto e grondante, tuttavia, toglie ogni dubbio: il Cristo era già morto quando la lancia romana gli aprì il fianco “e subito ne uscì sangue ed acqua” (Gv 19,34). L’icona non fotografa la realtà medico – legale, ma rappresenta la teologia giovannea: il Cristo regna dall’alto della croce. Gesù aveva detto: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Egli vive nei secoli. Le stimmate e il fianco squarciato non sono segni di vergogna e sconfitta, ma di onore e gloria. Sono segni di vita e segni mistici: di vita, perché da essi colano i sacramenta maiora, l’acqua del battesimo e il sangue dell’eucaristia[3]; mistici, perché incontrandoli l’uomo può penetrare misteriosamente, con tutto il suo essere nel Dio – Uomo, che si è fatto uccidere per amor suo. Il valore eterno di questi segni è ben evidente nella prima apparizione di Gesù risorto ai suoi, nel Cenacolo. “Mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore” (Gv 20,20). “Dalle sue piaghe siamo stati guariti” (Is 53,12). Non solo guariti, ma riempiti di gioia, di vita, di amore, di passione, di “eros” che unisce terra e cielo in Colui che “piegando il cielo” (cfr. Sal 143,5; Is 63,1) e scendendo più leggero che la rugiada sul vello di Gedeone (Gdc 6,38) si è fatto carne amante e amata nel grembo di terra della Vergine, più fumante del roveto ardente dell’Esodo, ben più sacro che il terreno sul quale Mosè si scalzò (Es 3,1-15). L’incredulo Tommaso – Didimo ben rappresenta la ricerca razionale dell’uomo d’Occidente, sempre ansioso di prove corrispondenti ai suoi angusti canoni culturali, persuaso da qualche secolo di razionalismo filosofico e di positivismo scientifico che è vero solo ciò che si verifica sperimentalmente. Negli ultimi anni, tuttavia, gli stessi dogmi della cultura scientista dominante hanno ceduto. Alle spalle delle false sicurezze, del mito del progresso inarrestabile e della tecnologia, la tela del palco della vita si è squarciata per rivelare il nulla[4]. Il nichilismo si affianca, esangue e distruttivo, al relativismo etico e all’utilitarismo. L’Occidente è in crisi. Quella economica non è la più profonda. Non sarà con armi esclusivamente intellettuali che potremo ri – annunciare agli uomini e alle donne d’Occidente che c’è un “solo nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale possono essere salvati” (cfr. At 4,12). Otto giorni dopo la prima apparizione, Gesù non prova a convincere Tommaso. Gli mostra le mani e il costato e gli dice: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente” (Gv 20,27). L’udito, la vista, il tatto, il cuore e la mente dell’apostolo sono stimolati potentemente da Gesù, Tommaso è avvolto e penetrato dalla realtà dell’incontro col Cristo Risorto. L’icona giovannea del Cristo morto e vivente parlò a Francesco tra le rovine di San Damiano. Commenta il Celano: “Da quel momento si fissò nella sua anima santa la compassione del Crocifisso e, come si può piamente ritenere, le venerande stimmate della Passione, quantunque non ancora nella carne, gli si impressero profondamente nel cuore”[5]. L’Europa credette a Francesco perché il linguaggio suo e dei Frati Minori era quello delle piaghe del Signore. La teologia francescana, da Antonio di Padova a Bonaventura e nei secoli successivi, ne fu profondamente influenzata. L’iconografia, l’arte, la letteratura, Giotto e la pittura nuova ne furono toccati. La mistica francescana non si è mai staccata dalle stimmate del Signore, ripresentate nel fondatore. Conosciuta ancora poco, se si guarda alla sua grandezza, a cavallo tra ‘600 e ‘700, la clarissa Veronica Giuliani ripresentò ancora, in un corpo di donna, i segni vivi e sanguinanti della passione di Gesù e della sua gloria. Il secolo breve, infine, avrebbe visto un altro figlio illustre di Francesco confitto in croce come su un altare sacrificale e sull’altare quotidiano come sulla croce: Pio da Pietrelcina, unico sacerdote stimmatizzato nella storia della Chiesa. Il filo rosso della contemplazione francescana delle stimmate, in particolare della ferita del costato, “porta del Paradiso” secondo Sant’Antonio, continua a proporre la sua efficacia all’uomo sperduto nell’Occidente all’inizio del terzo millennio. Il Santo Padre Benedetto XVI ha richiamato i vescovi e la Chiesa tutta all’impegno di una Nuova Evangelizzazione[6]. Il Padre serafico, Francesco, i suoi fratelli e sorelle, sono chiamati ancora dalla Chiesa ad augurare al mondo “il Signore ti dia pace!”, come Gesù fece quella sera nel Cenacolo: “Pace a voi!” (Gv 20,19-21); ancora sono esortati a ostendere al mondo le mani e il costato del crocifisso. Tommaso Didimo esclamerà ancora: “Mio Signore e mio Dio!”. E sarà felice. E sarà salvo e vivo.
1.L’ICONA GIOVANNEA (GV 19,32-34)
Giovanni è il testimone (v. 35) dell’evento. Quel petto adorabile su cui si era chinato poche ore prima è stato aperto violentemente. Il colpo di lancia è interpretato come un evento importante, che adempie le Scritture: “Non gli sarà spezzato alcun osso” (v. 36) è citazione di Esodo 12,46. Gesù è l’agnello di Dio, il vero Agnello che toglie il peccato del mondo, che libera il popolo dalla schiavitù. Egli è il giusto, che Dio custodisce nella sventura “preservando le sue ossa”, “neppure uno sarà spezzato” (Sal 33,21). I credenti, che come “il testimone” Giovanni si sottopongono al lavacro di sangue (segno dell’amore versato) e di acqua (segno dello Spirito donato), potranno “rinascere dall’alto” (Gv 3,3) e nutrirsi del vero Agnello, il “pane vivo disceso dal cielo che dà la vita al mondo” (Gv 6,51). La seconda citazione è tratta da Zaccaria 12,10: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (v. 37). La figura sfumata e storicamente non accertata d’un eroe, che viene sacrificato ingiustamente, è interpretata dal quarto evangelista come profezia sul Signore crocifisso. Lo Spirito di consolazione, nella visione profetica, si riversa sulla casa di Davide e su Gerusalemme. Il testo è in relazione con “quel giorno” (Zc 12,11. 13,1.), il “giorno del Signore” (Zc 14,1). Mateos e Barreto vedono tra gli eventi del giorno del Signore la connessione con la “sorgente zampillante, per lavare il peccato e l’impurità” (Zc 13,1); “in quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme e scenderanno parte verso il mare orientale, parte verso il mar Mediterraneo, sempre, estate e inverno. Il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto il suo nome” (Zc 14,8). Nel Cristo innalzato sulla croce che attira tutti a sé (Gv 12,32), Giovanni vede il tempio nuovo, aperto dalla lancia, da cui sgorga il fiume che dona la vita al mondo intero (cfr. Ez 47,1-12). Lo Spirito comunica l’amore di Gesù, purifica dai peccati e permette di “rinascere dall’alto”[7]. Il tema dell’acqua e del sangue è ricorrente in Giovanni: nel Vangelo, nella sua prima Lettera, nell’Apocalisse. Gv 7,37-38: Gesù esclama ad alta voce: “Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me. Come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno”. Il Signore è la fonte dell’acqua viva. I Padri della Chiesa hanno visto la Chiesa nascere come nuova Eva dal costato aperto del nuovo Adamo “dormiente”, il Cristo. Il credente, nato nelle acque battesimali e nutrito dal sangue eucaristico, diventa sorgente d’acqua viva nella testimonianza della sua fede in Gesù.
1 Giovanni 5, 6-8: “Questi è colui che è venuto con acqua e con sangue, Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che rende testimonianza perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi”. L’acqua e il sangue non sono per Giovanni un accidente, una piccola cosa. Con quanta insistenza sottolinea i due elementi e li accosta allo Spirito. Lo Spirito di consolazione e di purificazione esce in acqua e sangue dal Signore trafitto. Il tempio è aperto, l’effusione è iniziata: non avrà fine. Continua nella Chiesa, nella testimonianza del Vangelo, nella celebrazione dei sacramenti.
Apocalisse 5, 6. “Vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato”. L’Agnello immolato è “ritto”. E’ stato ucciso ma è vivo. L’aggettivo ricorda la postura ieratica delle icone del crocifisso che si richiamano a Giovanni. Il collo del crocifisso morto è ben steso, in posa regale. Il tema dell’acqua viva torna, nello stesso libro, in due citazioni: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine. A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita” (21, 6); “Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dall’Agnello” (22,1). La prima citazione ricorda Gv 7, 37: “Chi ha sete venga a me …”; la seconda richiama la visione di Ez 47, 1-12. Il tempio definitivo è il trono di Dio. Il fiume che sgorga da Dio e dall’Agnello è lo Spirito. Il tempio trinitario è stato aperto dal colpo di lancia. La cattiveria umana è stata sommersa dal perdono del Cristo (Lc 23,34), dall’amore di Dio. La roccia percossa da Mosè diede acqua (Nm 20,8-11). San Paolo commenta in 1 Cor 10,1-4): “I nostri padri bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo”[8]. Gesù, tempio vivo, già si offriva alla samaritana per dissetarla nella sua sete d’infinito. Dopo la risurrezione, la missione della Chiesa è portare a tutti gli uomini, presso ogni cisterna screpolata e presso ogni pozzo dove bevono per sopravvivere, il Cristo che si offre a tutti come il tempio-sorgente delle acque della vita eterna. I testi giovannei paiono caratterizzati da un imprinting originario. La visione del Signore trafitto sembra aver attraversato l’anima del discepolo che abbracciava la Mater dolorosa e contemplava, affranto, Gesù. La teologia del “Corpo mistico” è in San Paolo lo sviluppo della rivelazione traumatica sulla via di Damasco: “Io sono Gesù che tu perseguiti” (At 9,5). Ci sembra possibile pensare che la scena del Calvario costituisca la chiave di volta della testimonianza del quarto evangelista. I numerosi testi che abbiamo citato sembrano tutti ad essa connessi e da essa dipendenti, come in un polittico. Gli occhi, accanto al cuore, sono necessari per comprendere la teologia di Giovanni. L’uso del verbo “vedere” è per lui importante. Chiudendo il racconto della morte del Signore dice di sé: “Chi ha visto ne dà testimonianza” (Gv 19,35); entrando nel sepolcro vuoto, dopo Pietro, Giovanni “vide e credette” (Gv 20,8). L’incipit della Prima Lettera è strutturato solennemente sul prologo del Vangelo: “Ciò che era fin da principio, che abbiamo udito, lo abbiamo veduto con i nostri occhi”. Il Verbo eterno è visibile perché si è fatto carne. “Poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza”. L’apostolo è colui che “ha udito e veduto e annunzia la vita eterna che si è fatta visibile” (1 Gv 1,1-2). Ascoltare, vedere e annunciare sono strettamente connessi. La testimonianza della Chiesa, sull’insegnamento dell’apostolo non può ridursi ad un solo senso, sacrificando gli altri. L’intera liturgia cristiana è festa di Dio e festa dell’uomo. Di fronte al Dio visibile in Gesù Cristo (cfr. Gv 14,9), che si lascia toccare da Tommaso – Didimo, che c’invita a mangiare il suo corpo (Gv 6,48-58) tutti i sensi dell’uomo, risanati dalla Pasqua, sono coinvolti. Derivata da questa Visione del Calvario, la teologia giovannea ha prodotto nel tempo della Chiesa innumerevoli sviluppi estetici, sia nell’arte pittorica che nella letteratura. Attraverso il crocifisso di San Damiano si è riversata nel cuore di Francesco.
2.FRANCESCO A SAN DAMIANO: ICONA, SIGILLO, MISSIONE
La vita di Francesco fu totalmente illuminata dall’ombra della croce. Come San Paolo riceve il primo, incancellabile sigillo del Signore sulla via di Damasco (At 9,1 - 9), come nel cuore del giovane Isaia rimane scolpita a fuoco la visione del Dio Altissimo e trascendente che dominerà tutta la sua teologia (Is 6,1-8), così in Francesco si stampa nell’incontro col crocifisso a San Damiano la cifra della sua relazione d’amore con Gesù. In quel primo bacio di fuoco è contenuta la sua successiva conoscenza, l’incontro con Chiara, la fondazione dei tre Ordini, la sua morte santa, la particolare coloritura carismatica del legame ontologico battesimale dei fratelli e sorelle della sua “famiglia spirituale” (Reg Ofs 1) col Cristo crocifisso e risorto. E’ il crocifisso vivente, coi fiumi d’acqua viva che sgorgano dal suo fianco a dare a Francesco la sua missione: “Francesco, va’ e ripara la mia casa, che come vedi va tutta in rovina”[9]. La missione dei francescani di ogni tempo può solo sviluppare quest’icona dinamica, non prescinderne[10]. La vita nuova del santo si dipana nell’inclusione tra questo primo bacio sull’anima e il bacio del Serafino sul monte della Verna, che dissigilla il libro del suo corpo e lo apre come le mani, i piedi, il fianco del Signore crocifisso. Tutti potranno leggere nella sua vita svelata in carne e sangue il mistero dell’amore del Cristo effuso per noi. Van Asseldonk distingue tra il crocifisso “vissuto da Francesco” e l’immagine del Cristo crocifisso che prevalse nella storia dell’Ordine e della Chiesa, molto diversa da quella di San Damiano: “E’ un’immagine, quella tradizionale e universale, che si presenta in forma più umana, addolorata e occidentale, come si vede p. e. nel famoso crocifisso del Pisano, dell’anno 1235, fatto per la chiesa della Porziuncola”. Attraverso l’analisi degli scritti e della vita di Francesco, egli mostra invece: “Come il santo abbia visto e vissuto il nostro Signore Gesù Cristo crocefisso, per concludere che questo Cristo vissuto sembra molto simile o vicino all’immagine dipinta nel Crocefisso di San Damiano”[11]. Nella sua ricerca di Dio, già prima dell’incontro di San Damiano, Francesco aveva preso l’abitudine di entrare in una grotta per pregare, gemere, lottare[12]. Poeta e uomo “simbolico”, egli sente più agevolmente la comunione col Signore della vita immergendo i suoi sensi nel creato. Francesco ascolta la terra e il linguaggio dell'essere che canta in sinfonia sempre nuova dalle cose. S'immerge nella realtà delle creature, rese vive e continuamente vivificate dallo Spirito di Dio[13]. Messosi alla sequela del Cristo, continua a pregare in grotte e fenditure di roccia[14]. Il Celano ce ne dà una prima interpretazione teologica: “Si rendeva insensibile a tutti i clamori esterni e, raccogliendo tutti i suoi sensi esteriori e dominando ogni movimento dell’anima, viveva assorto nel solo Signore. Come è detto della sposa nel Cantico dei Cantici: nelle fenditure della roccia e nei nascondigli dei dirupi era la sua abitazione. Veramente con gioiosa devozione egli s’aggirava tra le dimore celesti, e in completo annientamento di sé, dimorava a lungo come nascosto nelle piaghe del Salvatore. Perciò cercava luoghi solitari per poter lanciare completamente la sua anima in Dio”[15].
Non solo Francesco fa della croce il suo vessillo, alla croce conforma l’abito suo e dei fratelli, si firma abitualmente col Tau e ne segna i luoghi[16], ma ancora tende a nascondere la sua vita nel Cristo (cfr. Col 3,3). Il suo spirito, già trafitto dal Signore elevato, ricerca nella terra luoghi che appaghino l’attrazione di tutto il suo essere verso quel corpo glorioso e crocifisso. Egli tende come l’apostolo a “dissolversi ed essere con Cristo” (Fil 1,23). L’assimilazione al Cristo crocifisso è progressiva. Sulla Verna il piccolo Francesco che si chiude nelle piaghe del Salvatore sarà mostrato al mondo come il Patriarca Serafico[17], confitto alla croce col Cristo, uno con Lui, con Lui aperto nel fianco, per rigenerare ancora la Chiesa che da quel costato è nata come novella Eva. San Giovanni Crisostomo afferma al riguardo: "Dal fianco di Cristo fu formata la Chiesa, come dal fianco di Adamo fu formata Eva. [...] E come allora prese dal fianco durante il sonno, mentre Adamo dormiva, così ora, dopo la sua morte, diede il sangue e l'acqua"[18].
La massima espressione della missione ricevuta a San Damiano: “Francesco, va’ e ripara la mia Chiesa!” si realizza nel dono delle stimmate. Francesco è chiamato a generare in Cristo le sue membra, “quella Chiesa che Cristo acquistò col suo sangue”[19]. L’influsso giovanneo è evidente nel crocifisso di San Damiano come negli scritti di Francesco. Icone come il Buon pastore (Gv 10,11) e l’Agnello immolato ed esaltato (Ap 5,6) ritornano nelle parole lasciate dal santo e anche nei suoi gesti di vita: si pensi alla sua devozione per gli agnelli, come immagine del Cristo[20]. Nella sua morte, ancor più, Van Asseldonk coglie una vera “celebrazione, in unione con l’Agnello, il Cristo Crocifisso – Risorto”. Egli commenta due testi celeberrimi di Prima Celano. Ne riportiamo uno stralcio: “Veramente in Francesco appariva l’immagine della croce e della Passione dell’Agnello immacolato (1 Pt 1,19) che lavò i peccati del mondo: sembrava appena deposto dal patibolo, con le mani e i piedi trafitti dai chiodi e il lato destro ferito dalla lancia (Gv 19,34). Vedevano infine la sua carne, che prima era bruna, risplendere ora di un bel candore, una bellezza sovrumana, che comprovava in lui il premio della beata risurrezione. Ammiravano infine il suo volto simile a quello di un angelo, quasi fosse vivo e non morto, e le altre sue membra divenute morbide e flessibili come quelle di un bimbo. “I suoi frati e figli accorrevano solleciti e piangendo baciavano le mani e i piedi del padre amoroso che li aveva lasciati e anche quel lato destro sanguinante, ricordo di Colui che versando sangue e acqua (Gv 19,34) dal suo petto aveva riconciliato il mondo con il Padre. “O dono davvero speciale e testimonianza di predilezione, che il soldato sia onorato con quelle stesse armi gloriose che si addicono al solo re! O prodigio degno di memoria eterna, o sacramento meraviglioso, degno di perenne e devoto rispetto, poiché esso rappresenta in maniera visibile alla nostra fede l’ineffabile mistero per il quale il sangue dell’Agnello immacolato, sgorgando a fiotti da cinque ferite, lavò i peccati del mondo! O eccelso splendore di quella croce che è fonte di vita e dà la vita ai morti!”[21].
Fra Optatus conclude: “Sembra superfluo accennare alla somiglianza di Francesco morto con quella del Crocifisso di San Damiano” e si chiede ancora cosa Celano avesse “davanti agli occhi quando scriveva queste pagine: il corpo morto del Santo o piuttosto il Crocifisso di S. Damiano?”[22]. A nostro avviso il sensus fidelium dell’intera famiglia spirituale francescana fu profeticamente espresso dalle Clarisse, quando trasferendosi da San Damiano al nuovo monastero, dopo la morte di Chiara, portarono con loro “anzitutto” il crocifisso, che fu “gelosamente custodito entro il coro monastico, situato nell’ambiente ch’era già chiesa di San Giorgio”[23]. Il crocifisso che parlò a Francesco è collocato accanto al corpo di Chiara e alla sua Regola. Le radici della vocazione francescana e d’ogni suo sviluppo nel tempo sono nutrite nel grembo verginale di Chiara. Van Asseldonk ci ricorda che il grande culto universale cominciò all’inizio del ‘900, quando il crocifisso venne esposto alla venerazione dei fedeli. “Ed ora questo Crocefisso sembra il più conosciuto e venerato in tutto il mondo”[24].
La paternità e “maternità” del Cristo che genera la Chiesa dal suo fianco aperto restò scolpita nel corpo di Francesco morto. L’Ordine e la Chiesa lo contemplarono come un evento straordinario, “inaudito”[25]. Le stimmate furono comprese come il sigillo definitivo di Dio sul ruolo di Francesco nella Chiesa. Il patriarca stimmatizzato resta, allo stesso tempo, la colomba rinchiusa nelle fenditure della roccia, nel costato del suo Signore. Tommaso da Eccleston riporta un testo bellissimo, una delle storie che i frati inglesi narravano la sera, nel momento della ricreazione, quando il ricordo del fondatore rendeva più gradevole il sorso di birra di scarsa qualità che condividevano. Il papa Gregorio IX aveva testimoniato la conversione di due eretici: “Questi eretici avevano visto una notte, alla stessa ora, Nostro Signore Gesù Cristo in atteggiamento di giudice, seduto con i suoi apostoli e i rappresentanti di tutti gli Ordini del mondo, ma non avevano visto nessun frate minore e neppure San Francesco, che uno dei Legati aveva proclamato in una predica più grande di San Giovanni l’Evangelista a causa delle stimmate. Avevano visto poi il Signore Gesù chinarsi sul petto di Giovanni e questi a sua volta su quello di Gesù. Ma mentre essi ne prendevano motivo di conferma alla loro opinione, ecco che il dolce Gesù aprì con le sue stesse mani la ferita del costato e vi apparve perfettamente visibile san Francesco, all’interno del petto di nostro Signore; poi il dolce Gesù chiuse la sua ferita e vi rinchiuse san Francesco”[26].
Eccleston è cronista puntuale, che fornisce indicazioni preziose. Nella sua introduzione alla terza sezione delle Fonti Francescane, Luigi Pellegrini ci avvisa, peraltro, che “la figura di Francesco appare ormai tutta soffusa di un alone sacrale e trasognato, oggetto di visioni e sogni, operatore di prodigi, oggetto di predicazione”. L’episodio citato appare “emblematico in proposito, in quanto predicazione, visione e prodigio vi appaiono fusi in un solo racconto”[27]. E tuttavia, proprio perché narrato attorno al fuoco dei frati e riportato da un cronista fedele, l’episodio è importante. A circa trent’anni dalla morte del santo[28], la traditio dei Frati Minori ripete e amplifica la prima descrizione del Celano: Francesco rinchiuso nelle fenditure della roccia - Cristo, come la sposa del Cantico dei Cantici. Risulta interessante vedere come la stessa sensibilità, lo stesso linguaggio simbolico, fosse stato già racchiuso nei Sermoni dal primo maestro di teologia dell’Ordine, frate Antonio di Padova. Un linguaggio che continua e si sviluppa nelle meditazioni dell’altro grande dottore, Bonaventura: nel Lignum Vitae, il 1260 e, poco dopo, in Vitis Mystica.
3.ANTONIO E BONAVENTURA: DOTTORI DELLA BELLEZZA CROCIFISSA
Nei Sermoni di Sant’Antonio[29], alcuni testi si fermano sulle piaghe del Signore. Commentando il testo di Giovanni 20 19-20, l’apparizione del giorno di Pasqua nel Cenacolo, il santo commenta: “A mio parere, il Signore mostrò agli apostoli le mani, il costato e i piedi per quattro ragioni. Primo, per dimostrare che era veramente risorto e toglierci così ogni dubbio. Secondo, perché la colomba, cioè la Chiesa o anche l’anima fedele, facesse il suo nido nelle sue piaghe, quasi come in profonde aperture, e così potesse nascondersi alla vista dello sparviero che trama insidie per rapirla. Terzo, per imprimere nei nostri cuori i segni straordinari della sua passione. Quarto, li mostrò perché anche noi, partecipando alla sua passione, non lo inchiodiamo più alla croce con i chiodi dei peccati”[30].
Conosceva Antonio l’espressione del Celano attribuita a Francesco? Tale ricerca esula dai limiti dei questo lavoro. Sapeva frate Antonio che Francesco amava pregare in grotte e anfratti? Ci sarebbe da stupirsi del contrario. Antonio è stato contemporaneo del fondatore. Venne dai canonici di Sant’Agostino ai Frati Minori, affascinato dal sangue dei primi martiri e dalla fama di Francesco, lo conobbe, lo vide più volte, ne ebbe stima profonda, tanto da esser “nominato” primo magister theologiae dell’Ordine e chiamato “mio vescovo”[31]. Antonio amava la natura e ne coglieva il canto del Creatore: a Montepaolo, come Francesco, abita una grotta come cella solitaria[32], a Camposampiero, poco prima della morte, s'innalza verso Dio da una cella di stuoie costruita su un possente noce[33]. Certo è che il tema della colomba chiusa nelle fenditure della roccia – costato del Cristo torna. Antonio va oltre. Egli associa il tema del costato all’autodefinizione di Gesù “Io sono la porta!” (Gv 10,9). Ecco il testo: “Gesù stesso, nel vangelo di Giovanni, dice: ‘Se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo‘. Se uno entra attraverso di me, vale a dire attraverso il mio costato aperto dalla lancia, se entra con la fede, la passione e la compassione, sarà salvo, come la colomba che si rifugia nella fenditura della roccia (cfr. Ct 2,14) per sfuggire allo sparviero che le dà a caccia; e così entrerà per controllare, per discutere ed esaminare se stesso, e poi uscirà per considerare, calpestare, disprezzare e fuggire la vanità del mondo”[34].
Al tema della ferita – rifugio dell’anima fedele, che per la seconda volta è paragonata alla colomba, vale a dire la sposa del Cantico dei Cantici, si sovrappone, nel ricco simbolismo del maestro portoghese, il predicato nominale di Gesù: “Io sono la porta”. La porta sembra, nella descrizione di Antonio, aprire alla cella dove pregare il Padre nel segreto (Mt 6,6). I tessuti interni del fianco di Gesù, quelli che si avvicinano alla zona cardiaca, costituiscono il luogo eletto per il fedele – colomba che sfugge alle insidie del demonio – sparviero ed esamina se stesso. Esce per tornare nel mondo con occhi diversi, che ne scorgono la vanità. In un terzo testo, tuttavia, il santo va ancora più in là. La porta aperta nel corpo di Gesù non mena solo a una cella segreta vicina al cuore del Signore, ma costituisce passaggio dimensionale, varco pasquale attraverso il quale si accede al paradiso. Antonio sta commentando il vangelo di Luca 21,25: “Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle”. “La piaga del costato è la città del sole. Con l’apertura del costato del Signore venne aperta la porta del paradiso, dalla quale rifulse a noi lo splendore della luce eterna. Si legge nella storia naturale che ‘il sangue estratto dal fianco della colomba toglie le macchie dagli occhi’; così il sangue estratto dal costato di Cristo con la lancia del soldato, illuminò gli occhi del cieco nato, cioè del genere umano”[35].
Si può forse sentire l’eco del primo maestro di Antonio, sant’Agostino autore de La città di Dio. Ancor più facile è scorgere l’icona della Gerusalemme celeste, che non ha bisogno di luce di sole o di luna, perché è illuminata da Dio e dall’Agnello (Ap 21 1-4. 22-23). Antonio, come Francesco e Chiara, come Bonaventura è un grande contemplativo. La sua azione pastorale e intellettuale, la sua predicazione e la redazione dei Sermoni nascono dalle intimità col Kyrios crocifisso e col Bambino di Betlemme. Nella contemplazione accade di essere circondati dai simboli e dalle immagini. Le visioni si sovrappongono nella libertà suprema del donante celeste, le parole della Scrittura manifestano connessioni impensate e svelano un senso recondito, il liquore della grazia cola dai lati della bocca piena e scivola sul mento. Si realizza quanto dice il salmo: “Alle spalle e di fronte mi circondi. Stupenda per me la tua grazia, troppo alta e io non la comprendo”. E il Signore ripete alla creatura affamata di Lui: “Apri la tua bocca, la voglio riempire” (Sal 81,11). Nei testi di Antonio Gesù - Signore che regna dall’alto della croce è il rifugio offerto alla Chiesa e all’anima fedele e la porta pasquale tra la terra e il cielo. Egli è simultaneamente il tempio e la sua porta aperta, da cui fluisce il fiume della vita (cfr. Ez 47, 1-12; Ap 22, 1-5). Entrare in lui significa comunicare con la Trinità, accedere al Dio trascendente di Isaia, che in lui si è fatto carne; significa aprirsi all’effusione dello Spirito Santo ed alla gioia del Padre, che ripete per ogni uomo o donna che rinasce nel suo Figlio: “Questi è il mio figlio/figlia prediletto!” (cfr. Mc 1,11).
Una trentina d’anni dopo la morte di sant’Antonio, il 1260, san Bonaventura scrive un breve trattato di mistica, Lignum vitae. Quarantotto meditazioni cristologiche sono suddivise con precisione aritmetica sui rami dell’albero della vita: la croce. Le prime parole dell’opera sono citazione di Gal 2,12: “Sono stato crocifisso con Cristo”[36]. Nel prologo l’autore spiega che il vero adoratore, il discepolo di Cristo deve contemplare la passione del Signore con memoria calda, intelligenza raffinata, volontà così amorosa da poter far sue le parole della sposa del Cantico dei Cantici: “Il mio amato è un sacchetto di mirra, riposa sul mio petto” (Ct 1,13)[37]. Il testo che ci attrae è il n. 30: “Inoltre, perché dal costato del Cristo morente sulla croce sorgesse la Chiesa e che si compisse la parola della Scrittura: guarderanno a colui che hanno trafitto (Gv 19,37), la disposizione divina permise che un soldato aprisse con un colpo di lancia il costato sacro: il sangue colò con l’acqua, fu effuso così il prezzo della nostra salvezza. Sgorgato dalla sua fonte, vale a dire dal più profondo del cuore, questo sangue ha donato forza ai sacramenti della Chiesa, per conferire la vita di grazia e, per quelli che vivono nel Cristo, offre da bere quest’acqua viva che sgorga per la vita eterna. Ecco che ora la lancia di Saul, cioè la perfidia del rigettato popolo ebreo, che aveva colpito il muro senza crearvi foro[38], aprì la pietra della divina misericordia e preparò una fenditura nel muro, come un nido di colomba. “In piedi, amica di Cristo, sii come la colomba che nidifica nella parte più alta della gola (Ger 48,28), lì dove il passero trova la sua casa (Sal 129,7), non smettere di vigilare, come la tortora che nasconde i piccoli di un amore casto, qui avvicina la tua bocca per attingere con gioia acqua alla sorgente del Salvatore (Is 12,3). E’ qui infatti il fiume che esce dal centro del paradiso, che, diviso in quattro corsi (Gn 2,10) e diffuso nei cuori devoti, feconda e irriga la terra intera”[39].
Il tema della colomba, citato dal Celano, ribadito più volte da Sant’Antonio, viene sottolineato ancora da Bonaventura. Non si tratta solo di citare un’espressione di delicato lirismo amoroso del Cantico dei Cantici. Nella spiritualità francescana si è ormai radicata una lettura cristologica particolare che si lega all’eredità del fondatore e all’esperienza mistica dei suoi figli. Il sigillo di fuoco impresso da Dio nel corpo di Francesco viene affondato pure nel cuore di Antonio e Bonaventura, come di altri figli e figlie in seguito. La missione dei francescani in ogni tempo non può prescindere dall’immersione nel costato del Cristo. Di là si esce per “riparare la Chiesa” dalle sue rovine. A quella fonte perenne la predicazione dei Frati Minori vuole avvicinare tutti gli assetati della terra. Di là, ripetiamo col dottore serafico, sgorgano i fiumi del paradiso; di là, con movimento opposto, insieme a sant’Antonio, si passa per accedere alla Gerusalemme celeste, alla città del sole. La sistematica, pur sobria, del trattato Lignum Vitae, cede in Vitis Mystica a un lirismo spirituale di rara bellezza. Qui il dottore, il controversista della Sorbonne, l’ecclesiastico uomo di governo, cede totalmente il passo al discepolo fedele innamorato come un adolescente, come il suo fondatore, come sorella Chiara e il grande dottore Evangelico del Signore crocifisso. La poesia bonaventuriana lascia a bocca aperta[40]: “Anima mia, […] preparati il miele della devozione, imitando la diligente ape. Sali verso il paradiso dell’amore, sali, dico, verso questo cuore che è innalzato, perché colui che tu cerchi è stato innalzato (sulla croce). “Riconosci dalle sue braccia stese l’amore di colui che qui soffre e si offre per abbracciarti e t’invita ad abbracciarlo. “Ma non abbracciare brevemente questo paradiso. Vola su ciascuno dei suoi fiori, suggi ciascuno dei suoi petali. A destra come a sinistra dobbiamo avvicinarci più intimamente ai ruscelli di sangue che scorrono”[41].
Dopo aver esortato “l’anima sua” ad avvicinarsi al Signore elevato da terra e averla fatta volare come ape innamorata sulle sue piaghe, sulle vene rotte nelle sue mani forate, sui piedi, Bonaventura giunge al centro della sua contemplazione: “Penetra, infine, per la porta del costato che la lancia ha aperto, nel cuore umilissimo dell’Altissimo Gesù. Là certamente si nasconde il tesoro ineffabile dell’ineffabile amore. “Là troverai, soprattutto, ‘un cuore affranto e umiliato’ (Sal 50,19). Così grande, così buono egli desidera i tuoi abbracci; così buono, ti aspetta per invitarti al bacio di pace, per abbracciarti. Egli inclina verso di te la testa fiorita, forata da tante punte di spine e sembra dire: ‘[…] Anche tu, lasciati muovere a compassione per le mie ferite. Mettimi, come tu mi vedi, come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio (Ct 8,6), perché tutti i pensieri del tuo cuore e tutte le azioni del tuo braccio io possa trovare somiglianti a me, che porto i sigilli che tu vedi”[42].
4.VERONICA GIULIANI: IL COSTATO, IL LIQUORE, IL CUORE
Se con fatica si riesce a evitare di ricopiare interamente, quasi esercizio ascetico – penitenziale, l’intero testo di Vitis Mystica, ancor più difficile risulta districarsi tra i copiosi doni mistici ricevuti da Santa Veronica Giuliani, clarissa cappuccina, vissuta tra il 1660 e il 1727. Il Padre Lazaro Iriarte nella cronologia della vita di Veronica li enumera in dettaglio. Ne selezioniamo i principali: 1678, abbraccio del crocifisso; venerdì santo 1681, Gesù le pone la corona di spine; 1683 – 1690, il nome di Gesù inciso nel petto, la croce sulle spalle, una croce piantata nel cuore; Pasqua 1694, lo sposalizio mistico; Natale 1696, Gesù le ferisce il cuore con una freccia, dalla ferita spesso sgorga sangue; 5 aprile 1697, venerdì santo, impressione delle stigmate; 7 aprile 1697, Pasqua, il “vero” sposalizio; 12 agosto 1697, gusta il liquore dal costato di Gesù; 8 – 12 dicembre 1702, i cinque dardi nel cuore; 6 febbraio 1703, gli strumenti della passione infissi nel cuore; 1710, le sette spade dei dolori di Maria nel cuore[43]. Nell’aprile 1693, per ordine del padre Bastianelli comincia a scrivere il suo diario, circa ventiduemila pagine che illuminano la ricchezza mistica della sua vita[44]. Veronica è afferrata dall’amore crocifisso, come Francesco, Antonio e Bonaventura. Come il fondatore, inoltre, lei donna, viene segnata a fuoco nella carne e nel sangue dallo sposo. Benedetto XVI ha voluto dedicarle una catechesi, il 15 dicembre 2010: “Veronica significa ‘Vera immagine’. E, in effetti, ella diventerà una vera immagine di Cristo crocifisso”[45]. Veronica prega continuamente per la conversione dei peccatori. Gesù l’attira al suo costato: “Ed esso si staccò il braccio dalla croce; facevami cenno che io mi accostassi al suo santissimo costato. In questo mentre non so come fosse, mi trovai abbracciata con detto crocefisso, ed Esso mi disse: ‘Tutto questo che ora faccio con te, lo faccio acciò tu veda quanto mi son grate le tue preghiere’. […] Avrei voluto stare sempre nel suo santissimo costato e come mi ricordavo di questo fatto, mi si imprimevano in modo le pene e i dolori della sua passione”[46].
Le preghiere per la conversione dei peccatori sono causa del gesto tenero di Gesù. L’avvicinamento al suo costato e l’assimilazione progressiva della sposa alla sua passione sono dono e impegno, collegato alla presenza bruciante nel cuore di Veronica dell’ansia del Buon Pastore per le pecore smarrite. L’esperienza mistica della clarissa cappuccina non è solipsisitica, ma sempre collegata all’apostolato. Il suo ministero è d’essere “mezzana” tra Dio e le anime: peccatrice tra i peccatori, chiede di “riparare per i peccatori, patire per loro e a nome loro”[47]. Il costato di Gesù non è soltanto rifugio della colomba innamorata, ma sorgente di luce e fontana zampillante a cui dissetarsi. Iriarte ha studiato con scrupolo le letture di Veronica. Tra esse non risultano i Sermoni di frate Antonio di Padova[48]. Eppure, nello sposalizio mistico del giorno di Pasqua 1694, Veronica descrive il costato del Signore in termini vicini a quelli del santo. “Tutta fissa stavo nel Signore. In esso parevami di veder tutto. Esso era così bello che dire non posso. […] Le mani, i piedi ed il costato, cioè le sue piaghe, erano così risplendenti, da sembrarmi che invece di piaghe, vi fosse un bellissimo gioiello. Solo la piaga del costato mi parve aperta, e da essa uscivano raggi come di sole. Ciascuno di questi dava più lume del sole che noi vediamo; anzi questo sembra come tenebre al pari di questi che io vedevo”[49].
In numerosi altri testi del Diario si parla di luce e raggi luminosi che escono dalle piaghe. Il 5 aprile 1697, venerdì santo, Veronica riceve le stimmate. Il 7 aprile, Pasqua di Risurrezione, celebra col Cristo “il vero sposalizio”. Gesù le dice che gli altri fatti in precedenza erano solo “mezzi per arrivare a questo”. Il Signore le chiede da cosa può riconoscerla come sua sposa. Veronica risponde: “[Dalle] vostre sante piaghe che avete posto in me indegnissima. Queste son quelle che mi fanno dire che sono vostra sposa”. Gesù la dona come figlia alla Beata Vergine. “La Beata Vergine mi accettò, e, rivolta al Signore gli disse: ‘Le vostre sante piaghe siano la sua abitazione’. Il Signore mi mostrò le sue piaghe e mi disse: ‘Qui devi stare’. Cioè nel suo santo Costato”[50].
L’intimità di Gesù con Veronica apre a un nuovo dono. La stessa santa racconta nel Diario che il Signore nove volte le ha fatto accostare la bocca alla piaga del costato e cinque volte le ha lasciato gustare il liquore che da esso usciva[51]. La notte tra l’otto e il 9 agosto 1697 la santa è in preghiera. Gesù le fa apprendere “che la nuova grazia era il volermi dare a gustare il liquore del suo santissimo costato. In questo punto, con lucente splendore, vedevo uscirne il detto liquore, come acqua e sangue mescolati”[52]. Tre giorni dopo Veronica vede il Signore glorioso che le mostra la croce: “[La piaga] del costato pareva che, come voce, mi andasse invitando che io mi accostassi a lei. […] In questo punto io vidi le sue santissime piaghe tanto risplendenti e parevami che gli angeli, con calici d’oro raccogliessero questo liquore. […] Il Signore mi fece vedere che dava da gustare questo liquore celeste a più anime sue care […] Alla fine, si accostò a me e mi fece tal grazia. Io non so raccontare né la soavità né l’odore né il vigore e la forza che mi diede. […] Sapore e liquore di Paradiso io gustai”. E Veronica aggiunge: “Nel gustare che facevo ciò, mi assisteva, appresso di me, la Madre S. Chiara con molte altre sante”[53].
L’icona delle labbra di Veronica che suggono il costato sanguinante richiama naturalmente la visione di Chiara narrata nel processo di canonizzazione. Chiara sale su un’alta scala e Francesco le offre la mammella del petto da succhiare. Ne esce latte dolcissimo che resta nella bocca della santa e poi ne esce come oro così chiaro ch’ella può specchiarvisi[54]. Questa “sensitività” francescana aveva trovato meno di trent’anni prima un’espressione estetica preziosa nel San Francesco che abbraccia il crocifisso, che il maestro sivigliano Bartolomé Esteban Murillo aveva realizzato su commissione dei Frati Cappuccini della città andalusa. Francesco fa del globo terrestre il suo sgabello per slanciarsi verso il costato aperto del Cristo, che si china verso di lui. Le sue labbra sono a pochi centimetri da quel petto adorato[55]. In tutto ciò ritorna incessantemente l’icona giovannea. Nell’esperienza francescana i temi della teologia e della vita intima dell’apostolo “che Egli amava” col Signore si srotolano progressivamente come il libro a cui l’Agnello ha sciolto i sigilli. Il Cristo che offre il costato a Veronica è glorioso. La vista delle sue piaghe suscita gioia, come nel cuore degli apostoli la sera del giorno di Pasqua (Gv 20,20). Le ferite sono risplendenti, luminose, come la “porta della città del sole” della contemplazione di Antonio. Da quella porta sgorga il liquore prezioso fatto di sangue ed acqua (1 Gv 5, 6). “Chi ha sete venga a me e beva. Chi crede in me, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,37). Così dice Gesù: e Veronica beve al costato del Cristo; e Chiara beve al costato del servo crocifisso, Francesco, il cui petto è stato aperto e reso fonte viva dal sigillo divino. La porta del tempio è stata spalancata dalla lancia (cfr. Ez 47,1-5; Gv 2,19-22. 19,34), il fiume della vita scorre sul mondo. L’ultimo accostamento riguarda proprio l’esperienza di san Giovanni, celebrata nell’arte cristiana, di poggiare il capo sul petto del Signore[56]. Nella vigilia della sua passione “egli, reclinandosi sul petto di Gesù gli chiese chi fosse il traditore: ‘Signore, chi è?’” (Gv 13,25). In un Convegno internazionale su Santa Veronica del 1982, Raymond Darricau ha proposto un interessante studio sulle relazioni tra Santa Margherita-Maria Alacoque e santa Veronica riguardo al Cuore di Gesù[57]. Sia Francesco che san Giovanni vi sono citati. «La visitandina Margherita-Maria è stata introdotta nella conoscenza del Sacro Cuore dal padre della famiglia serafica: San Francesco d’Assisi (4 ottobre 1673): "Il giorno di san Francesco, durante la preghiera, Nostro Signore mi fece vedere questo grande santo rivestito d’una luce e uno splendore incomprensibile, elevato a un grado di gloria eminente, sopra gli altri santi, a causa della conformità ch’egli ha avuto alla vita sofferente del nostro divino Salvatore e dell’amore ch’egli aveva portato alla sua santa Passione, che aveva attratto questo divino Amante crocifisso a stamparsi in lui per l’impressione delle sue sacre piaghe, cosa che l’aveva reso uno dei più grandi favoriti del suo Sacro Cuore, il quale gli ha donato un grande potere per ottenere l’applicazione efficace dei meriti del suo sangue prezioso, rendendolo in qualche modo il distributore di questo divino tesoro [...] Il Divino sposo dell’anima mia me l’ha donato come condottiero, come pegno del suo amore divino, per condurmi attraverso le pene e le sofferenze che mi arriveranno”[58].
Il 1697, l’anno dell’impressione delle stimmate e del “vero sposalizio”, dopo avervi bevuto il liquore, il 12 agosto, anche Veronica è condotta dal fondatore, nel giorno della sua solennità, al costato del Cristo: “Il Padre San Francesco mi faceva cenno che io andassi alle ferite di Gesù, e m’insegnava il suo santo costato. [...] E mentre io vedevo il santo prostrato davanti al Crocefisso, il detto Crocefisso è divenuto tutto come una splendente luce, con uscire dalle sue mani e piedi e Costato raggi […] In questo punto io sentii dolore, come mi fosse aperto il cuore colla lancia; e passate le mani e i piedi con i chiodi”[59].
La seconda considerazione riguarda l’apostolo Giovanni. Nella sua festa, il 27 dicembre 1673, Margherita-Maria si trova abbandonata allo Spirito di Dio. “Egli mi ha fatto riposare sul suo petto divino, dove mi ha svelato le meraviglie del suo amore e i segreti inesplicabili del suo Sacro Cuore”[60]. Esattamente vent’anni dopo, il 27 dicembre 1693, Veronica riceve la stessa grazia: “Anche lei riposa sul Cuore di Gesù”[61]. E’ il caso di notare che Orsola Giuliani era nata … il 27 dicembre 1660. Benedetto XVI fa notare che “i momenti forti dell’esperienza mistica di Veronica non sono mai separati dagli eventi salvifici celebrati nella liturgia”[62]. I momenti liturgici hanno ritmato le esperienze mistiche della santa: il venerdì santo viene stigmatizzata, il giorno di Pasqua sposata dal Cristo. La festa di San Giovanni s’inserisce, nella fantasia simbolica del Creatore, in questa lettura sapida del tempo. L’adesione di Francesco al crocifisso di San Damiano si sviluppa nei suoi figli e figlie nella storia. I parallelismi e le somiglianze tra la santa delle rivelazioni del Sacro Cuore, Marguerite-Marie, e Veronica attestano una profonda vicinanza della spiritualità francescana e dell’esperienza mistica dei discepoli di Francesco e Chiara al Cuore del Signore. Lo esprime con la consueta eleganza e sintesi il Santo Padre: “Veronica grida: ‘O peccatori, o peccatrici… tutti e tutte venite al cuore di Gesù; venite alla lavanda del suo preziosissimo sangue… Egli vi aspetta con le braccia aperte per abbracciarvi’”[63].
5. PADRE PIO: LA CROCE, LA GLORIA, L’ANNUNCIO
Padre Pio da Pietrelcina è l’unico sacerdote stimmatizzato nella storia della Chiesa. Giovanni Paolo II lo ha proclamato santo il 16 giugno 2002[64]. Il dono delle stimmate fatto al fondatore amato, San Francesco, ripetuto nella sorella Veronica, in lui ha aderito totalmente non solo alla vita personale e all’unione intima con Dio, ma al ministero di presbitero. La contemplazione della kenosis del Signore è sgorgata in canto dal cuore di Francesco: “Ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine, ogni giorno viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sopra l’altare nelle mani del sacerdote”[65].
Già abituato al dolore dalla malattia comparsa in giovinezza, fra Pio viene ordinato sacerdote a Benevento il 10 agosto 1910. Un mese dopo, all’inizio di settembre, riceve le prime stimmate, cosiddette “invisibili”[66]. Il 20 settembre 1918, nel coro di San Giovanni Rotondo, riceverà quelle definitive. Per cinquant’anni celebrerà l’eucaristia unito all’offerta sacrificale del Signore non solo nello spirito, come accade a ogni buon sacerdote, ma nel suo stesso corpo. La parola dell’apostolo, “Sono stato crocifisso con Cristo” (Gal 2,20), sussurrata dalle labbra di Francesco tra i bagliori della Verna e poi da quelle di Veronica, sposa crocifissa, cola dalle mani di Padre Pio in gocce di sangue vero che si mescolano al sangue sacramentale sull’altare. Quelle mani sanguinanti sono state stese innumerevoli volte sul capo dei penitenti per rendere effettivo il potere di guarigione del fiume che sgorga dal costato del Signore crocifisso. Negli ultimi tempi della sua vita, quando si avviava serenamente alla patria celeste, le stimmate iniziarono a chiudersi. L’ultima escara scomparve poche ore prima della morte. Dio, datore di ogni dono, che lasciò i sigilli sul corpo morto di Francesco e di Veronica, volle chiuderli su quello del suo sacerdote. Dopo cinquant’anni di ferite aperte e sanguinanti, la pelle di Padre Pio appena morto non presentava alcuna cicatrice[67]. Padre Pio aveva ricevuto dal Signore più segni dolorosi nel suo corpo. Prima delle stimmate ricordiamo la trasverberazione (5 – 7 agosto 1918)[68]. Un’altra ferita, meno nota, di cui egli parla al padre Benedetto, fu prodotta tre mesi dopo la stimmatizzazione: andava dalla parte bassa del cuore fin sotto la spalla destra, in linea trasversale[69]. Cinquantotto anni[70]di dolore associati al suo ministero di sacerdote, di vicario del Cristo sofferente, che guarisce con le stesse piaghe (cfr. Is 53,12), terminano con la scomparsa totale dei segni. La medicina non ha potuto spiegare come delle ferite “lacero – contuse” possano sanguinare per mezzo secolo senza produrre infezione e cancrena, o senza guarire, lasciando esito cicatriziale. Nemmeno può spiegare come questi segni antichi scavati nella carne possano scomparire, infine, senza lasciare traccia alcuna. La teologia è chiamata a parlare quando la medicina tace. L’ipotesi che si fa, di fronte alla scomparsa delle stimmate, è l’inizio della glorificazione del sacerdote santo[71]. E tuttavia il Signore mostra gloriosamente le piaghe ai suoi nel Cenacolo. Perché toglie i sigilli a Padre Pio? Forse perché il lavoro del sacerdote e della vittima era terminato. Dopo l'ultima Messa celebrata con fatica il 22 settembre, la sua missione di sacerdote santo si conclude. Padre Pio non deve più offrire il suo sangue da quelle mani forate assieme a quello sacramentale, non deve più pagare "il costo pauroso/ di quella (tua) pace/ che tutti prendevano [...]/ Tutti prendevano/ un brandello di carne"[72]. La gloria, in ogni caso, deve essere decretata dalla Chiesa. Il decernimus del Santo Padre che proclama un nuovo santo, viene pronunciato dopo un processo canonico che ausculta il senso dei fedeli e ne raccoglie la testimonianza. E’ la comunità cristiana, guidata con amore autorevole dalla gerarchia, che respira e canta la santità dei suoi figli. La letteratura, la pittura, la musica fanno parte delle espressioni del popolo di Dio, rappresentano i cembali della Chiesa sposa che canta al suo Signore, rivisto in un aspetto particolare in un suo figlio o figlia[73]. Così la comunità dei Frati Minori, dopo la morte di Francesco, fece decorare, anno dopo anno, la basilica inferiore e quella superiore di Assisi. Giotto, Cimabue, Simone Martini, il maestro di San Francesco, altri numerosi artisti trasfondono in catechesi e memoria visiva il mistero del Cristo vissuto da Francesco. Nel transetto della basilica inferiore l’allegoria dei tre voti, obbedienza, povertà, castità, si unisce sul fondo dell’abside alla celebrazione di Francesco glorioso. Il santo è rappresentato assiso su un trono magnifico, rivestito di sontuose vesti di oro, in posizione regale, circondato da angeli con chiarine squillanti. L’antifona della Liturgia del quattro ottobre è stata ben resa dal “Maestro delle vele”: Francesco, povero e umile in terra, entra ricco di gloria nel cielo, coronato con inni celesti. La comunità dei Frati Minori Cappuccini di Sant’Angelo e Padre Pio – Foggia, custode del corpo di san Pio, si è mossa con la stessa sensibilità per celebrare la sua gloria. Il Signore ha riempito Francesco di un carisma tracimante, “un serbatoio ampio come il mare” (Sir 50,3). Il carisma del fondatore, continuando nei suoi figli, si è amplificato nella storia. Il serbatoio chiuso nel cuore di Francesco è stato aperto sulla Verna, con la ferita nel suo fianco, poi in Veronica e padre Pio. La croce va cantata e celebrata nel suo aspetto glorioso. La luce vista da Antonio di Padova e Veronica Giuliani, lo splendore del crocifisso Signore va annunciato. Quest’idea devota i Frati hanno affidato al maestro gesuita Marco Ivan Rupnik e alla sua scuola. Il cammino dell’uomo nuovo[74]parte con richiami paolini alla vita nuova del battezzato, poi con i mosaici che annunziano i misteri fondamentali della nostra fede: l’Incarnazione, il Natale, la Pasqua del Signore. Subito dopo comincia a sinistra il ciclo di San Francesco e, due passi dopo, a destra, quello di Padre Pio. Il fondatore è rappresentato come catecumeno adulto, vestito di vesti bianche, che esce dal battesimo con la decorazione delle stimmate. Il riferimento non è storico ma teologico: nel battesimo il Signore contrae alleanza con la sua creatura. I doni che vorrà darle nella sua vita sono già presenti al suo cuore. Il resto del cammino passa tra gli eventi della vita di Francesco e quelli di Padre Pio, sottoposti alla “Signoria del Cristo”, nell’obbedienza al Padre. Il percorso termina in un baluginio di luce nella cripta. Attorno ci sono i misteri della vita del Cristo, in fondo, nell’enorme pilastro centrale che sorregge staticamente tutta la grande chiesa, una fenditura è stata scavata nella roccia, per deporvi il corpo di san Pio. Il santo è nascosto in Cristo: quando si manifesterà Cristo, nel giudizio finale, anch’egli sarà manifestato (cf. Col 3, 3-4). Ora il suo corpo riposa, il suo spirito agisce, nel mistero della comunione dei santi, per attirare uomini e donne a quel costato.
MISSIONE: IL LINGUAGGIO E L’ELEGIA
Il 21 giugno 2009 il Santo padre Benedetto XVI venne a San Giovanni Rotondo, pellegrino alla tomba di San Pio. Dopo aver ammirato con volto luminoso i duemilacinquecento metri quadri di mosaici, disse sorridendo a padre Rupnik: “La sua opera è non solo un capolavoro di arte, ma costituisce una lezione di Teologia magistrale”[75]. Il centro teologico di questa lezione è rappresentato dal corpo del santo, inserito simbolicamente nella ferita del costato di Cristo – Pietra angolare. La spiritualità d’Israele antico era basata sull’ascolto: “Scemà, Israel” – “Ascolta, Israele” (Dt 6,4). Quella del Protestantesimo resta ancorata alla Parola, “Sola scriptura”. La spiritualità cristiana, come la custodisce la tradizione della Chiesa Cattolica, vive il respiro profondo dell’apostolo Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita […] noi lo annunziamo anche a voi” (1 Gv 1, 1-3).
Da questa tradizione viene tutta l’arte cristiana, la bellezza che resiste nei secoli alla follia degli iconoclasti, la “migrazione” storica di tante icone mariane dalla Grecia all’Italia. Da qui Francesco ebbe la geniale intuizione del presepe a Greccio. Dal tredicesimo secolo la predicazione dei Frati Minori contamina di vita nuova la poesia e la letteratura, la pittura e la musica[76]. L’idea della collocazione delle spoglie di Padre Pio è figlia di questa ispirazione. Il popolo di Dio ha bisogno di ascoltare, vedere, contemplare, toccare … fino a gustare, nell’eucaristia, culmen et fons. L’Europa attuale ci appare smarrita. Al desiderio di pace dei De Gasperi, Adenauer, Schumann e Spaak sulle macerie della guerra, si è sostituito il vangelo massonico dell’Euro. L’Europa ha il cuore freddo, è afflitta dal “nulla”, nega le sue radici, abolisce i suoi simboli, sostituisce il Bambino con le renne, il Natale con la festa pagana dell’Inverno[77]. Quest’Europa non viene in chiesa, dove spesso le nostre omelie sono recitate in linguaggi stanchi e senza cuore[78], eppure è assetata del Cristo, come la samaritana ignara che incontra Gesù al pozzo di Sicar (Gv 4, 1-30). Il Papa ha richiamato i vescovi e tutta la Chiesa a una Nuova Evangelizzazione, col motu proprio Ubicumque et semper. Le chiese antiche – dice il pontefice – hanno bisogno di essere rievangelizzate: “Non è difficile scorgere come ciò di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente cristiani sia un rinnovato slancio missionario, espressione di una nuova generosa apertura al dono della grazia”. Non è più possibile attendere i fedeli tra le mura del tempio, né possono ammettersi chierici che celebrino una stanca eucaristia feriale per attendere alle proprie cose nel resto della giornata. Allo zelo missionario vanno uniti linguaggi nuovi, liberati dalla schiavitù razionalista e intellettualista. La scissione operata da Descartes e proseguita con l’idealismo è giunta nel ventre dell’essere umano occidentale. Occorre ripresentare il mistero dell’essere nella sua integralità. L’Essere che dà la vita a tutto ciò che esiste si è fatto uccidere sulla croce. Dal suo fianco squarciato sgorga la vita insopprimibile del suo cuore divino – umano. La teologia scolastica lo diceva con chiarezza: l’Essere è uno, vero e buono; la sintesi di questi “trascendentali” è bellezza[79]. Chi partecipa della bellezza alla sua fonte, Gesù, il più bello tra i figli dell’Uomo, è chiamato a trasmetterla con un linguaggio trasparente e accattivante, che non opacizzi la bellezza di Dio. Per questo Francesco cantava a Dio “Trino e uno”: “Tu sei bellezza, tu sei sicurezza, tu sei la pace. […]Tu sei ogni nostra ricchezza. Tu sei bellezza … “, con insistenza e rapimento[80]. Per questo la gente lo ascoltava. Dall’alto della torre dell’orologio, a Piazza del Campo a Siena, il monogramma di San Bernardino ricorda il genio di un uomo, anch’egli figlio di Francesco. Lo zelo del cuore degli apostoli va tradotto anche oggi in simboli, in una ricerca mistica e apostolica di bellezza. Mistica, perché non può non partire dalla contemplazione, dal creato, dalla liturgia, dal mistero dunque della libertà dello Spirito, che si riversa su chi vuole e come vuole; apostolica, perché rivolta all’annuncio per il quale siamo stati inviati. Non si tratta d’inventare una formula valida per tutti, per ogni latitudine e cultura, quanto di partire tutti dalla stessa celebrazione per tradurla nella lingua di ogni uomo. Mettiamo la mano ancora, con Tommaso Didimo, nella ferita del costato, che dona pace e gioia: Mio Signore e mio Dio! Restiamo ancora, con le donne e con Giovanni, sotto la croce a bagnarci, arrampichiamoci con Francesco e Veronica fin dentro la ferita e sostiamoci a lungo, chiudiamo gli occhi con Antonio e sorridiamo, bagnati dalla luce del Paradiso, suggiamo come l’ape con Bonaventura il miele delle piaghe di Gesù. Noi presbiteri offriamo il nostro cuore come Padre Pio, perché il cuore del Signore possa occuparlo totalmente e riempirlo del suo zelo per l’umanità. Nella cappella dei Frati Cappuccini, “Notre Dame de paix” a Paris – Montparnasse, è stato collocato un nuovo crocifisso, del maestro italiano Paolo Orlando. La tradizione è quella del Cristo glorioso di San Damiano. Il sangue del Cristo che regna dalla croce cola dal costato e dalle piaghe sulla città di Parigi. La cattedrale di Notre Dame e la basilica del Sacro Cuore sono visibili nella cinta muraria. Dal suo punto più alto, Montmartre, “il monte dei martiri”, la città sembra prostrarsi come la Maddalena il mattino del giorno di Pasqua e cingere i piedi del Signore (cf. Mt 28,9), che le offre il suo cuore aperto. Il sangue dal costato scorre abbondante per terminare nella Senna. Il fiume circonda l’Ile de la Cité, su cui sorge la cattedrale della Vergine, dividendosi in due braccia, come fossero l’arteria aorta e la vena porta attorno al cuore di Lutetia. Il sangue del Cristo cola su Parigi, nel Tamigi a Londra, nella Sprea a Berlino, nel Manzanarre a Madrid, nel porto di Amsterdam, nei Navigli a Milano e nel Tevere a Roma, su tutte le città d’Europa e dell’Occidente. L’Ordine nostro sta chiudendo conventi. Forse è grazia di Dio. Non siamo chiamati a pensare alla morte, come Abramo vecchio e senza figli, ma a scendere per le strade d’Europa, ad allargare il chiostro alle piazze, come Francesco in Piazza Maggiore, che incantava la dotta Bologna col suo linguaggio semplice e bello[81], come Antonio, con le rotule ingrossate per il lungo cammino, da Rimini a Vercelli, dalla Provenza a Padova, che predicava all’aperto a migliaia di persone mute e attente[82], come Bernardino, che infiamma l’Italia con la teologia iscritta nel Nome di Gesù. Forse stiamo scendendo dalle città d’Europa verso Emmaus, come Cleopa e il suo compagno, depressi e “tardi di cuore” (Lc 24,25). Ma Lui viene, ci brucia il cuore, e noi siamo riempiti di calore e ripartiamo. Ripartiamo fratelli e sorelle in Francesco e Chiara, in Elisabetta e Ludovico, con cuore ardente, per offrire all’Europa rifugio e gioia, nutrimento e senso in quel cuore divino che si apre a noi dalla ferita del costato. Dal protomonastero di Assisi, con voce suadente, amplificata dai milioni di copie che sono in tutte le case francescane del pianeta, il crocifisso di San Damiano ci chiama a lasciarci rigenerare, uomini e donne nuovi, “in un lavacro di rinnovamento nello Spirito Santo” che lui effonde su di noi con abbondanza (Tt 3,5-6). L’uomo nuovo canta il canto nuovo, come il Magnificat, come il canto della Maddalena che pervade di fremiti la veglia pasquale e la illumina col volto del Cristo che le sorride, un canto dolce, che scioglie i cuori induriti, bello, che attrae al Creatore e Redentore tutte le creature assetate per accostarle a quella bocca nel suo corpo, gorgogliante di vita. La croce aveva un linguaggio di dolore e di morte. Il Signore risorto le ha dato una grammatica di gioia e speranza, l’alfabeto dell’amore che sconfigge la morte. L’alfabeto della croce gloriosa fa fatica a restare nei sillogismi, né l’uomo d’Occidente li comprende oggi. E’ di testimoni ch’egli ha bisogno, più che di sottili ragionatori[83]. Tre sono i testimoni: lo Spirito, l’acqua e il sangue (1 Gv 5,7-8). Lo Spirito che cola dalla croce impasta l’acqua e il sangue di bellezza, nel pennello devoto dell’iconografo, nelle dita frementi del musicista, nella lingua del poeta che indugia sulle labbra che annunciano il nome di Gesù, come Francesco a Greccio, che si beava dicendo Beeetleeemme[84]. Il canto della “casa del pane”- Betlemme si satura del pane spezzato e del vino versato da Gesù nell’ultima cena, s’impasta con l’ultimo respiro del Signore crocifisso e col canto gioioso del risorto, col giubilo della sua Chiesa, che offre col vangelo il corpo e il sangue del Signore a ogni povero della terra. Questo scritto non può terminare che in canto, o sarebbe incoerente!
Il sangue e l’acqua che sgorgano Dalla ferita del costato Mi lavino, Signore, da tutte le mie colpe L’acqua che cola dalla porta aperta del tempio Mi sommerga di vita per rinascere Il sangue stilli sulle mie labbra spalancate Di pellicano piccolo affamato di Te, mio Dio Benedetta la lancia di Roma Che ti ha aperto il fianco E le ginocchia piegate del soldato Veramente tu sei il Figlio di Dio Figlio dell’uomo Inondaci di vita Coi fiumi del tuo cuore Tu sei la porta Che unisce cielo e terra In te troviamo il senso del cammino E il respiro perduto d’infinito
Amen!
Bouar, R. C. A, Étude St. Laurent, mars 2012
© Antonio Belpiede 2012 [1] Qui in Africa abbiamo potuto utilizzare il testo sacro della Conferenza episcopale italiana del 1974, in La Bibbia, a cura dei Gesuiti della Civiltà Cattolica e di San Fedele - Milano, Milano 19833. [2] “Il Crocefisso è stato dipinto nel secolo XII da un artista umbro ignoto, in stile romanico, sotto un chiaro influsso orientale-siriano” ci dice fr. Optatus Van Asseldonk, citando diversi studi più antichi: O. Van Asseldonk, Il Crocifisso di San Damiano visto e vissuto da San Francesco, in La lettera e lo spirito, tensione vitale nel francescanesimo ieri e oggi, Roma 1985, pp. 631-656. Lo studio costituisce un approfondimento di alta qualità. [3] Y. Congar, L'idea dei sacramenti maggiori o principali, in Concilium 1 (1968) pp. 35 - 47; T. Schneider, Segni della vicinanza di Dio, compendio di teologia dei sacramenti, Brescia 1983, pp. 44 - 46. [4] “All the world's a stage,/And all the men and women merely players”, “Il mondo intero è un palco/ e tutti gli uomini e le donne sono soltanto attori”, dice nel suo monologo il malinconico Jaques nel dramma di W. Shakespeare, As you like it (Come ti piace), Atto II, scena VII. [5] 2 Cel 10: FF 593-594. I testi tratti da Fonti Francescane, Padova 19833, sono citati con le sigle abituali degli autori e il numero del documento e col numero marginale delle Fonti. [6] Benedetto XVI, motu proprio Ubicumque et semper, 21 settembre 2010. [7] J. Mateos – J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, analisi linguistica e commento esegetico, Assisi 1982, pp. 780-782. [8] “Secondo tradizioni care ai rabbini, la roccia colpita da Mosé seguiva gli ebrei per procurare loro l’acqua; Paolo si serve di questa interpretazione per dire che, dai tempi dell’Esodo, è Cristo che conduce il popolo”: La Bibbia della Civiltà Cattolica … op. cit., commento a 1 Cor 10,1-13, p. 2228. [9] 2 Cel 10: FF 693. [10] Il crocifisso si trova, come è noto, nella basilica di Santa Chiara. Le Clarisse custodiscono l’icona fontale della famiglia spirituale di Francesco e Chiara, memoria perenne della loro missione. In ogni chiesa o cappella francescana nel mondo, copie piccole e grandi del crocifisso richiamano dolcemente il senso d’identità carismatica. Qui a Bouar – R. C. A., da dove scriviamo, ce ne sono nella cappella del nostro convento Saint Laurent, in quella delle suore Francescane missionarie del Sacro Cuore e presso le religiose polacche Serve della Madre del Buon Pastore, infine, il più grande, nella chiesa delle Clarisse. [11] O. Van Asseldonk, Il Crocifisso … op. cit., p. 645. [12] Tre Comp. 12: FF 1409; 1 Cel 10: FF 336. [13] "Molti spiriti religiosi e pensatori 'spirituali' hanno esaltato la Trascendenza divina frapponendo una certa distanza nei confronti del creato, soprattutto per quanto concerne la concezione materiale [...] Radicalmente diverso è l'atteggiamento di Francesco che nel suo corso permane interamente nel segno della simpatia. [...]. La mediazione cercata da Francesco nelle creature non va disgiunta da una profonda comunione con queste ultime [...] comunione fraterna ed una cosmica fusione affettiva": E. Leclerc, Il Cantico delle Creature, ovvero i simboli dell'unione, Torino 1971, pp. 67 - 69. [14] Così a Fontecolombo, Clar. II,12: FF 2179; Nella Seconda considerazione delle sacre sante istimate, l’autore dei Fioretti, propone un’accattivante, per quanto "semplice", lettura teologica “delle grandissime fessure e aperture di sassi grandissimi” del monte della Verna, predisposte da Dio nell’ora della passione di Gesù, come preludio della terra madre ad accogliere Francesco “perché quivi si doveva rinnovare la passione del nostro Signore Gesù Cristo”: FF 1906. [15] 1 Cel 71: FF 444-445. [16] Si legga la bella sintesi di I. Omaechevarria, voce Croce, in Dizionario Francescano, Padova 1984, 301-312. [17] Titolo scelto da Paolo VI per la lettera apostolica di approvazione della nuova Regola dell'Ofs, 24 giugno 1978. [18] Giovanni Crisostomo, Catechesi battesimali, 7, 17 - 18 (SCh 50 bis, p. 160 s), cit. in R. Cantalamessa, Amare la Chiesa, Milano 2003, p. 54. [19] Leg mag., II,1: FF 1038. Cfr. 1 Cor 4,15: “Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo”. [20] 2 Cel 201: FF 789; Van Asseldonk, op. cit., pp. 652-653. [21] 1 Cel 112-114: FF 516-519. [22] O. Van Asseldonk, op. cit., p. 656. [23] L. Bracaloni, Il prodigioso Crocefisso che parlò a San Francesco nella Basilica di S. Chiara, Assisi 1958, p. 15: citato in Van Asseldonk, op. cit., p. 644. [24] Ibid., pp. 644-645. [25] Cfr. Lettera di frate Elia, 5: FF 309. [26] T. Da Eccleston, L’insediamento dei Frati Minori in Inghilterra, n. 115: FF 2547. [27] L. Pellegrini, Introduzione alla sezione terza, Cronache e altre testimonianze, in Fonti Francescane op. cit., p. 1874. [28] Ibid., nota 38, p. 1867: L’opera è stata redatta con tutta probabilità nel 1258. [29] Scritti nel terzo decennio del XIII secolo, non sono una raccolta di prediche, anche se riportano riccamente l’esperienza di predicatore itinerante del santo, ma sono destinati direttamente ai confratelli, per formarli all’apostolato. Si veda la prefazione di Giordano Tollardo a Sant’Antonio di Padova, I Sermoni, traduzione di P. G. Tollardo, Padova 19962, pp. 6 – 15. [30] Sermone nell’ottava di Pasqua, op. cit., p. 231, il corsivo è nostro. [31] San Francesco, Lettera a frate Antonio: FF 251 – 252. [32] V. Gamboso, Antonio di Padova, vita e spiritualità, Padova 1995, p. 74. [33] Vita prima di Sant'Antonio o "Assidua", a cura di V. Gamboso, 15, 3-6, cit. in Ibidem, p. 221. [34] Sermone nella Domenica XV dopo Pentecoste, op. cit., p. 703, corsivo nostro. [35] Sermone nella Domenica prima di Avvento, Ibid., p. 885, corsivo nostro. [36] Nel nostro convento africano di Bouar abbiamo potuto consultare solo un’edizione francese con testo bilingue: Saint Bonaventure, L’arbre de vie, texte latin – français, Introduction et traduction par J. G. Bougerol, Paris 1996. L’opera segue il testo latino di Quaracchi e la sua numerazione. [37] Ibidem, nn. 1 – 2. [38] In 1 Sam 19,10 il re Saul cerca di uccidere Davide, che nella reggia, in pace, suona la cetra, scagliandogli contro la sua lancia. Davide si scansa e la lancia colpisce il muro. [39] Saint Bonaventure, L'arbre de vie, op. cit., n. 30; i corsivi e le citazioni bibliche sono nel testo latino di Quaracchi. Traduzione nostra. [40] Saint Bonaventure, La vigne mystique, in Œuvres spirituelles de Saint Bonaventure, introduction, traduction et notes du P. Jean de Dieu, Paris – Gembloux 1932. Il testo latino originario è sempre quello di Quaracchi (1898). La citazione segue i Capitoli e i paragrafi dell’originale. La traduzione dal francese è nostra. [41] Ibidem, XXIV.1-2. [42] Ibidem, XXIV.3. Corsivo nostro. [43] S. Veronica Giuliani, Esperienza e dottrina mistica, pagine scelte a cura di P. Lazaro Iriarte, Roma 1981, pp. 76-77. [44] Tra le numerose edizioni del Diario, Iriarte accredita Un tesoro nascosto, ossia Diario …, pubblicato da P. Pizzicaria. Nuova Edizione a cura di O. Fiorucci, 5 voll., Città di Castello, 1969-1974, citato col numero del volume e la pagina. [45]http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_benxvi_aud_20101215_it.html. [46] Diario, I, 36. Citato in: S. Veronica Giuliani, Esperienza e dottrina mistica, op. cit., p. 124. Corsivo nostro. [47] L. Iriarte, Introduzione, Ibid., pp. 58-59. [48] Idem, Ibid., pp. 27 – 38. [49] Diario, I, 302-309, Ibid., p. 144. Corsivo nostro. [50] Diario, I, 908, Ibid. pp. 153 – 154. Corsivo nostro. [51] Diario, II, 961, Ibid. p. 472. [52] Diario, II, 211 – 213, Ibid., p. 479. Corsivo nostro. [53] Diario, II, 218, Ibid., p. 480. [54] Processo di canonizzazione, terza testimonia, 4: FF 2995. [55] L’opera celeberrima è conservata al Museo de Bellas Artes di Siviglia. Vi si trovano numerose opere di soggetto francescano, tra cui un raro “Sant’Antonio di Padova con Bambino” dalla barba rada e giovanile (in genere il santo è rappresentato rasato), commissionate dai Frati Minori Cappuccini. Nel nostro convento di Ronda de Capuciños si conserva la stanza dove il pittore lavorò per circa due anni. [56] Dice Sant’Agostino: “Guardate come Giovanni resta umile. Questo giusto, quest’uomo eminente che beveva al cuore di Gesù i segreti dei misteri, lui che, dopo essersi abbeverato al cuore del Signore ne ha ritrasmesso la divinità”: Saint Augustin, Commente la première lettre de Jean, Paris 1986, I, 8. Nostra traduzione dal francese. [57] R. Darricau, Le coeur de Jésus dans la doctrine spirituelle de sainte Marguerite-Marie (1647-1690) et sainte Veronica Giuliani (1660-1727), in Testimonianza e messaggio di Santa Veronica Giuliani, Atti del Congresso internazionale di studi su santa Veronica Giuliani, Roma, Pontificio Ateneo Antonianum, 27-31 ottobre 1982, a cura di Lazaro Iriarte OFM Cap, vol. I, Roma, 1983, p. 395. L’autore cita i testi del Diario dalla stessa edizione usata dall’Iriarte, cf. supra, nota 25. Per Santa Margherita-Maria le citazioni sono tratte da Vie et oeuvres de sainte Marguerite-Marie Alacoque … , par Mgr. Gauthey, Archevêque de Besançon, Paris 1920, 3 vol. Per tutti i testi tratti da questo studio la traduzione dal francese è nostra. [58] Œuvres, I, p. 240, citato in R. Darricau, Le cœur …op. cit., p. 395 – 396. Corsivo nostro. [59] Il racconto, tratto da Diario, II, 264, è riportato nella relazione Darricau, op. cit., nota 24, p. 396. [60] Œuvres, I, p. 121-123, citato Ibid., p. 407. [61] Ivi, cita Diario, I, 189-191, 397. [62] Benedetto XVI, Catechesi 15 dicembre 2010, op. cit. [63] Ibid., citazione di Diario, II, 16 – 17. [64] Richiamiamo alcune delle principali biografie e studi. A. Da Ripabottoni, Padre Pio da Pietrelcina, "il cireneo di tutti", San Giovanni Rotondo, 19984; F. Da Riese Pio X, Padre Pio da Pietrelcina, Crocifisso senza croce, San Giovanni Rotondo, 20078; P. Agostino da S. Marco In Lamis, Diario, San Giovanni Rotondo, 20033; Una sintesi ricca e articolata in Atti del 1° Convegno di studio sulla spiritualità di Padre Pio, San Giovanni Rotondo 1- 6 maggio 1972, a cura di P. Gerardo Di Flumeri, San Giovanni Rotondo 1973; Per una conoscenza del santo dai suoi scritti, Padre Pio Da Pietrelcina, Epistolario, a cura di Melchiorre da Pobladura e Alessandro da Ripabottoni, 4 voll., quarta edizione, riveduta e corretta da padre Gerardo Di Flumeri, San Giovanni Rotondo, 2002; Sulle stimmate e i doni mistici, P. Gerardo Di Flumeri (Ed.), Le stigmate di Padre Pio da Pietrelcina, testimonianze, relazioni, San Giovanni Rotondo, 19952, il volume contiene anche interessante documentazione fotografica; Atti del Convegno di studio sulle stimmate del servo di Dio Padre Pio da Pietrelcina, (San Giovanni Rotondo, 16 - 20 settembre 1987), a cura di Padre Gerardo Di Flumeri, San Giovani Rotondo, 1988; G. Di Flumeri, Il mistero della croce in Padre Pio da Pietrelcina, San Giovanni Rotondo, 19852; Idem, La transverberazione di Padre Pio da Pietrelcina, San Giovanni Rotondo, 1985. [65] San Francesco D’Assisi, Ammonizioni, I: FF 144. [66] Padre Pio descrive il fenomeno dopo circa un anno al padre Benedetto. Più che “invisibili”, stando alla descrizione del santo, mi sembrerebbe possibile chiamarle “intermittenti”: esse appaiono e scompaiono, ma quando ci sono restano ben visibili, oltre a provocare dolore. Padre Pio da Pietrelcina, Epistolario … op. cit., Vol. I, let. 44, p. 234. Citiamo il volume e il numero progressivo della lettera, più la pagina dell’edizione usata. [67] P. Gerardo Di Flumeri (Ed.), Le stigmate di Padre Pio ... op. cit., p. 23. [68] Epistolario, op. cit., I, 504, p. 1072 s. [69] Ibidem, I, 515, p. 1106. [70] Evidentemente calcolando gli otto anni delle stimmate “invisibili” o “intermittenti”. Il Padre Gerardo Di Flumeri le chiama “invisibili” poiché sottolinea la presenza del dolore anche quando scompaiono esternamente: cfr. Le stigmate …op. cit., p. 6. [71] Le stigmate … op. cit. p. 24-25; P. M. Marianeschi, La scomparsa delle stimmate di Padre Pio, in Atti del Convegno di studio sulle stimmate ...op. cit., pp. 225 - 247; G. Di Flumeri, Ipotesi teologiche sulla scomparsa delle stimmate di Padre Pio, in Ibidem, pp. 319 - 342. [72] M. Grifa, Padre! Colloqui intimi d'un autunno, Foggia, 1971. Se "molti hanno scritto di lui", come è titolata una pubblicazione di Padre Alessandro da Ripabottoni, pochi, anche tra i suoi frati, hanno espresso versi. Questa poco conosciuta raccolta di Padre Matteo Grifa, generata nell'emozione della morte di Padre Pio, possiede accenti lirici di rara bellezza di fronte all'ineffabile mistero della presenza del Cristo nel suo sacerdote crocifisso. [73] Cfr. Conc. Vat. II, Cost. Dogm. Lumen Gentium, n. 50. [74] M. I. Rupnik, Il cammino dell’uomo nuovo, con san Francesco e san Pio da Pietrelcina, Roma – San Giovanni Rotondo 2009, corredato di belle foto dell’opera. [75] Questa frase non si trova negli atti ufficiali, ma già pochi minuti dopo la partenza del Papa la comunicai personalmente, in quanto portavoce dei Frati Cappuccini, agli organi d’informazione. Come dice san Giovanni: “Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti” (Gv 21,24). Eravamo lì e lo attestiamo. [76] H. Thode, Francesco d’Assisi e le origini dell’arte del Rinascimento in Italia [Franz von Assisi und die Anfange der Kunst del Rennaissance in Italien, Berlin 1885] solo nel 1993 tradotto in Italia, (Luciano Bollosi ed.), Donzelli, Roma, 1993. Si veda in particolare il cap. V. I Francescani, pp. 305 - 356. Il nostro fratello Prospero Rivi, segretario del Movimento Francescano d’Italia, ribadisce questa teologia francescana della bellezza: “Nel genio di fede di Francesco contempliamo una santità nuova ispiratrice di un’arte nuova”. P.Rivi, Francesco e il genio della fede: una santità nuova ispiratrice di un’arte nuova, Conferenza all’Associazione Scrittori Reggiani, Reggio Emilia 19.XII.2009, pro manuscripto. [77] Il Santo Padre, nel suo discorso alle autorità inglesi a Westminster hall, il 17 settembre 2010 ha detto: “Vi sono alcuni che sostengono che la celebrazione pubblica di festività come il Natale andrebbe scoraggiata, secondo la discutibile convinzione che essa potrebbe in qualche modo offendere coloro che appartengono ad altre religioni o a nessuna.”: http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2010/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20100917_societa-civile_it.html. [78] L’Osservatore romano del 31 dicembre 2009 riportò le dichiarazioni di Mons. Mariano Crociata, segretario della Conferenza Episcopale italiana, a un convegno sulla Liturgia nei giorni precedenti. Il prelato definì certe omelie “poltiglia insulsa e pietanza immangiabile”, e comunque “ben poco nutriente”. I Media hanno citato anche una battuta attribuita al Cardinal Ratzinger: “Il miracolo della Chiesa è sopravvivere ogni domenica a milioni di pessime omelie”. Chiaramente, non c’è conferma ufficiale. [79] “In un mondo che non si crede più capace d’affermare il bello, le prove della verità hanno perduto il loro carattere conclusivo. I sillogismi funzionano correttamente come delle macchine rotative […] ma è un meccanismo che non affascina più. […] Se San Tommaso poteva considerare l’essere come “una certa luce” per l’esistente, questa luce non dovrebbe spegnersi là dove si è disimparata la stessa lingua della luce e s’impedisce al mistero dell’essere di esprimere se stesso? […] La testimonianza dell’essere perde ogni credibilità per chi non sa più discernere il bello”: H. Urs Von Balthasar, La Gloire et la croix, les aspects esthétiques de la révélation, I Apparition, traduit de l’allemand par Robert Givord, Paris, 1965, p. 17. Nostra traduzione dal francese. Originale: Herrlichkeit, eine theologishe ästhetik, Einsiedeln, 1961. L’opera comprende tre tomi. [80] San Francesco, Lodi di Dio Altissimo: FF 261. Secondo il teologo di Montreal Charles Taylor la “grande catena dell’essere”, l’arte come comunione estetica e mimesi della bellezza di Dio e del creato si è interrotta nell’ottocento. Dai grandi poeti romantici, Wordsworth, Holderlin, Leopardi, a noi si coglie il tentativo di articolare nuovi significati morali in natura, di recuperare una visione di qualcosa di più profondo. Se i linguaggi teologici e metafisici del passato definivano con sicurezza l’ambito del profondo, dell’invisibile, il simbolo è componente costitutiva del “linguaggio più sottile”. E’ questo tipo di linguaggio che può rioffrire un senso all’uomo moderno nella vasta zona pedonale tra le due strade dell’impegno religioso e del materialismo. C. Taylor, A secular age, Cambridge, Massachusetts – London, England 2007; Edizione italiana: L’età secolare, Milano 2009, pp. 443-456. La crescita economica del gigante Cina pone nuovi problemi all'umanità, nuovi attentati industriali alla bellezza del pianeta che si sommano alle ottusità e ai guasti dell'uomo d'Occidente. E' estremamente interessante, per cercare un linguaggio comune alle due grandi tradizioni culturali che possa guarire il pianeta, il cammino sapienziale, nella contemplazione della bellezza, del franco - cinese François Cheng, de l'Academie française. Si consiglia il bellissimo F. Cheng, Cinques méditations sur la beauté, Paris 2006. [81] Tommaso da Spalato ne fu testimone. Il futuro vescovo della città dalmata afferma di Francesco: “Egli non aveva lo stile di un predicatore, ma piuttosto quasi di un concionatore”: FF 2252. Il suo linguaggio è simile a quello di un oratore laico, eppure parla di Dio e a Lui attrae. [82] Dice il Thode: “Quando venivano a sapere che Antonio avrebbe predicato, già la notte precedente uomini e donne arrivavano in folla e alla luce delle torce si dirigevano verso un campo vicino a Padova dove il santo aveva l’abitudine di predicare. Si potevano vedere anche trentamila uomini riuniti laggiù.” H. Thode, op. cit., pp. 235 – 236. [83] Cfr. Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, n. 41. [84] “Quel nome ‘Betlemme’ lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva ‘Bambino di Betlemme’ o ‘Gesù’, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole”: T. Da Celano, Vita Prima, 86: FF 470.
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